CAPANNONI E NEGOZI CHIUSI E ABBANDONATI. IL PROBLEMA E’ SERIO E RIGUARDA ANCHE I NOSTRI COMUNI

CAPANNONI E NEGOZI CHIUSI E ABBANDONATI. IL PROBLEMA E’ SERIO E RIGUARDA ANCHE I NOSTRI COMUNI
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“Se volete regalare un capannone per Natale, questo è il momento giusto. La Confindustria del Veneto ha aperto un portale nel quale cerca di ricollocare undici mila capannoni abbandonati. Vengono via con poco. Demolirli costa, i proprietari preferiscono lasciarli lì, gusci vuoti in mezzo alla grande pianura. Carcasse in memoria del nostro prosperoso Novecento.
Che ce ne facciamo, adesso, di tutti quei capannoni vuoti? Qualcuno ha pensato di farci i rave-party, ma non è andata a finire bene. Cercare di rifilarli ai cinesi, come abbiamo già fatto con pezzi importanti della nostra industria dismessa, non funziona più: i cinesi si stanno comprando l’Africa, ormai ragionano in grande, altro che Veneto… Forse si potrebbe provare con una grande campagna nazionale, “adotta un capannone a distanza”. Con i pinguini funziona. O smantellarli e ricostruirli su Marte, basta chiedere a Elon Musk. Nel solo Veneto i capannoni sono più di novantamila, più o meno uno ogni 50 abitanti: Non ci credevo (…) ogni cinquanta veneti c’è un capannone. I medici di base – media nazionale – sono uno per ogni 1.200 abitanti. Un capannone ogni 50 abitanti, un medico di base ogni 1200. (…) 
Un grande veneto, il poeta Andrea Zanzotto, definì “progresso scorsoio” questa maniera di vivere. Progresso scorsoio: più accelera, più ti stringe alla gola. Oggi ci ritroviamo a fare i conti con i capannoni dismessi, e domani?”
Queste righe sui capannoni dismessi del Veneto sono una parte dell’editoriale che Michele Serra ha fatto due sere fa  a “Che tempo che fa” la trasmissione di Fabio Fazio su Rai3.
Il noto giornalista che a suo tempo dirigeva il settimanale satirico Cuore, punta il dito sul modello Veneto. Che probabilmente è il più evidente. Ma il problema dei capannoni dismessi, vuoti, abbandonati, non riguarda solo il Veneto e neanche solo il nord est. O il nord Italia. Riguarda TUTTA l’Italia. Compresi i paesi e le cittadine della terra di mezzo, a cavallo tra Umbria e Toscana. Chi per lavoro o altri motivi frequenta le “zone commerciali e produttive” di Chiusi, Città della Pieve-Po’ Bandino, Fabro, ma anche Torrita di Siena, Sinalunga, Magione o Panicale sa di cosa parliamo.
Quante sono le fabbriche, i magazzini e depositi, gli ex show room commerciali ormai inutilizzati e lasciati in balia delle erbacce? Parecchi. Diverse decine. Per non parlare degli stessi negozi all’interno dei centri commerciali sorti come funghi dal 1990 in poi, altre decine e decine di “scatole vuote” con la saracinesca abbassata, talvolta nascosta dietro una qualche gigantografia che ne mitiga l’effetto-deserto…  Se si fanno due calcoli si può facilmente dedurre che si tratta di migliaia e migliaia di metri quadrati di superficie commerciale o produttiva inutilizzata e di migliaia di metri cubi di cemento, con posteggi e strutture collaterali che occupano ettari ed ettari di terreno.
Solo a Chiusi nella zona industriale delle Biffe di capannoni dismessi ce ne sono diversi. Anche di grandi dimensioni. E in qualche caso in stato di abbandono e di degrado, tanto da rappresentare anche una minaccia dal punto di vista della sicurezza: parliamo degli ex capannoni della Molitoria Toscana (Torrini), della ex Nigi, la ex Mercanfrutta, la ex falegameria Marcucci, e altre di dimensioni più piccole. Su queste colonne ne parlammo in un articolo del 23 settembre 2021.  Articolo nel quale ponevamo anche il problema delle necessarie bonifiche.
Ma di capannoni vuoti ce ne sono pure nella contigua zona produttiva più recente (zona Paip) e in quella, sempre contigua delle Cardete (nel comune di Città della Pieve. Ce ne sono nella zona artigianale Boncia Bassa nei pressi della vecchia fornace di via Oslavia, alla Fontina (si pensi alla ex sede Ready Tec, che si è spostata a Querce al Pino, o all’ex Supermarket Hurrà). Oltre al piano interrato mai finito e mai utilizzato, ci sono negozi vuoti (molti) dentro il centro Commerciale Etrusco. E nel cuore di Chiusi Scalo (dai vecchi capannoni ex segheria Della Ciana in via Manzoni e via Redi ai tanti negozi e botteghe artigiane nel “triangolo entrale”. Hanno chiuso i battenti anche alcune banche e pure qualche negozio cinese. Un segnale questo in controtendenza. Finora i cinesi compravano e si insediavano. Adesso chiudono la saracinesca e vanno via.
Ma ci sono capannoni vuoti anche a Po’ Bandino, area cerniera tra Chiusi e Città della Pieve (l’ex concessionaria Ford Rosati per esempio, o il grande capannone dove si costruivano prefabbricati), ce ne sono e di grandi dimensioni nella zona produttiva di Pineta nel comune di Castiglione del Lago (la ex Perugina per esempio, ma non solo), nella zona produttiva La Potassa vicina a Tavernelle (Trafomec e altre fabbriche dismesse). In quest’ultimo caso parliamo di un’area che era, fino a una decina di anni fa, una delle aree più industrializzate dell’Umbria, con aziende, per lo più metalmeccaniche, da centinaia di posti di lavoro. Adesso è una spianata di scatole vuote.
La strada che da Magione, parallelamente alla superstrada porta a Corciano e Perugia e che era una fila ininterrotta di fabbrichette, grandi magazzini, concessionarie e show room vari, adesso sembra una camionabile americana che corre nel deserto in mezzo ai resti di una ghost town. Due capannoni su tre sono chiusi. E abbandonati
.
La zona industriale commerciale Borgo Sole a Fabro scalo, realizzata negli anni ’90 su un rilevato di 4 metri di ceneri di carbone, è anch’essa in buona parte occupata da capannoni chiusi.
A Torrita e Sinalunga, le due cittadine “più produttive e operaie” della Valdichiana senese il panorama non è molto migliore. La sensazione è la stessa. Ci sono contenitori rimasti vuoti anche nei luoghi nevralgici, come l’area del Casello A1 Valdichiana a Bettolle e all’interno del Valdichiana Village, il famoso Outlet, che è lì a qualche centinaio di metri…
Non parliamo poi di Chianciano che negli ultimi anni ha rilanciato egregiamente il centro storico, che è diventato uno dei più vivaci, almeno d’estate, ma per il resto, della gloriosa cittadina termale cara a Fellini è rimasto poco. Anzi niente. La desertificazione commerciale si è impossessata anche della capitale del “Fegato sano” dove le saracinesche abbassate sono senz’altro più di quelle aperte e le luci spente più di quelle accese.
In sostanza la situazione è ovunque la stessa del Veneto, con numeri più bassi, forse, ma l’andazzo e il quadro d’insieme  sono identici.
Tutto questo cemento vuoto e inutilizzato, abbandonato a se stesso adesso rappresenta non solo una brutta immagine, ma anche un problema. Per i proprietari certamente, ma anche per i Comuni che si ritrovano a fare i conti  con decine di scatoloni ingestibili, da riconvertire. Ma come? Con quali risorse, per fare cosa?
Per esempio in alcune realtà (come Chiusi Scalo per dirne una) mancano spazi pubblici idonei per attività sociali e culturali, manca una sala multifunzione, non c’è neanche un pub o un locale in cui si possa ascoltare musica live e fare due chiacchiere, anche se non si hanno più 20 anni. Mancano spazi per mostre d’arte di un certo tipo. Mancano però soprattutto aziende che creino reddito e posti di lavoro, ma di possibili investimenti in tal senso non c’è neanche sentore. Gli stessi grandi hub logistici dei colossi tipo Amazon, tra non molto non serviranno più e quei mega-capannoni da cui partono i furgoncini faranno la fine di tutti gli altri e rimarranno sul groppone al territorio.
A dire il vero manca anche qualcos’altro: la consapevolezza del disastro (economico, ambientale, sociale) e la voglia delle stesse amministrazioni locali di porvi attenzione e cercare soluzioni. Ovviamente non è semplice. Anche perché si parla per il 90% dei casi di immobili privati. Ma i capannoni dismessi diventano ricettacolo e rifugio di animali selvatici e uccelli che possono propagare malattie, possono collassare e crollare, possono creare problemi, proprio per lo stato di abbandono, al normale deflusso dell’acqua piovana e dei canali di scolo, in periodi di siccità prolungata, come è successo quest’anno, possono prendere fuoco e far divampare incendi, possono diventare luoghi di spaccio… Va detto, ad onor del vero, che questa faccenda dei capannoni dismessi, da riconvertire e bonificare, non ha scaldato neanche i tanti comitati ambientalisti sparsi nel territorio. Come se mobilitarsi fosse giusto solo quando arriva un’Acea o un’azienda agricola che vogliono realizzare un impianto per il trattamento di qualche tipo di rifiuto.  Quei capannoni stanno diventando anch’essi un materiale di scarto, ma molto ingombrante. Il “progresso scorsoio” di cui parlava Zanzotto sta strangolando anche noi.
m.l.
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