LA VERSIONE DI SILVIA. O DELLA SCELTA DI VIVERE

venerdì 15th, maggio 2020 / 10:01
LA VERSIONE DI SILVIA. O DELLA SCELTA DI VIVERE
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Silvia è tornata, è a casa e sta bene. Un viaggio, le sue avversità, un lieto fine. (Un miracolo, forse). Se ne è parlato tanto in questi giorni. E allora lo faccio anch’io.

La vita dell’essere umano è indubbiamente l’emblema del viaggio, che inizia per ognuno in un punto preciso nella storia del mondo e si delinea lungo coordinate impreviste fatte di percorsi, persone, eventi sui quali abbiamo un potere effimero e marginale, intrinsecamente legato alla scelta.

Dal caos iniziale dove regna la legge del tutto e subito che governa i più piccoli, si delinea con il tempo una sorta di ordinata consapevolezza guidata dall’istinto che conduce in età adulta alla conoscenza di sé.

Questo percorso verso l’acquisizione dell’io consapevole avviene prima a livello inconscio, poi in età relativamente matura emerge a livello cosciente. Dopo un’infinità di abbandoni, cesure, perdite, ampliamenti, riflessioni, accettazioni e scardinamenti il nostro io restringe il campo delle possibilità e comincia a delineare le proprie scelte personali che si possono protrarre più o meno a lungo nel tempo.

In sostanza, l’essere umano, superata la pubertà, fa una selezione a livello cosciente di tutti quegli impulsi che lo ostacolano o lo agevolano nel conseguimento degli obiettivi prefissati, a differenza di quello animale che invece opera esclusivamente su base istintuale.

Può accadere però che in un momento improvviso della vita, dopo tanto praticare, quando tutto sembra essere collocato al posto giusto, il bel quadretto  appeso sulla parete più in vista della casa ad un certo punto cada e da lì il dilemma: che fare? Riappendere il quadro o sostituirlo con uno nuovo e totalmente diverso?

Il quadro che crolla è un po’ l’emblema di quella tipologia di uomo che  sente il bisogno di dare un ulteriore senso alla propria  vita; attitudine tipica di quegli spiriti che sono animati da un costante senso di incompiutezza e che avvertono il limite della realtà circostante.

E’ a  questa categoria che forse appartiene lo spirito di Silvia Romano e che l’ha spinta ad intraprendere un percorso fuori dalle sicurezze della casa, abbandonare i suoi progetti verso una vita comoda ed agiata in Italia per portare il suo aiuto in terra d’Africa.

Una forza propulsiva che in lingua tedesca viene definita streben (verbo che non ha un corrispettivo esatto italiano ma che può essere tradotto con  bramare, aspirare, tendere a qualcosa che anela alla conoscenza di ciò che va oltre da noi, alla spiritualità)  l’ha portata ad abbandonare certezze ed affetti per abbracciare un’esperienza di vita a contatto con una realtà totalmente diversa dalla sua, dedita al servizio di una delle popolazioni più indigenti e dimenticate della terra.  Ha seguito sia a livello istintuale che cosciente quel bisogno autentico e assolutamente personale che ogni individuo sente per appagare se stesso.

Ha assecondato il suo flusso interno, quella forza vitale che purtroppo l’ha anche scaraventata nella più terribile delle situazioni che un essere umano può essere chiamato a fronteggiare, la prigionia.

Un periodo buio, terribilmente infinito tanto da lasciar presagire il peggio, la catastrofe. In quella situazione Silvia sa, è cosciente che le possibilità di riuscita sono minime; in mano ai suoi carcerieri islamici non ha carte da spendere per la sua salvezza.

Il tempo comunque deve trascorrere, in un modo o in un altro e la sua mente sa che è importante resistere, essere forti, come ha detto lei stessa.

Ma in quella situazione l’essere umano dove va ad attingere la forza, le risorse mentali, spirituali ed intellettive necessarie per mantenersi in vita?

L’unica possibilità di salvezza è viaggiare a ritroso, tornare a quella forza originaria che lo ha spinto a fare il primo passo; ritornare a quello streben iniziale che è stato il motore di tutto.

Silvia ha trovato la salvezza nella sua sete di conoscenza, ha nutrito il suo spirito con ciò che è riuscita a trovare. Ha chiesto il Corano, le è stato dato, si è messa leggere, ha cercato di conoscere, comprendere ed infine abbracciare ciò che in quel momento era il suo qui ed ora.

Ha di nuovo accolto il suo presente e se ne è appropriata, se ne è nutrita, ne ha bevuto, lo ha seguito, assecondato e amato, così come fanno i naviganti durante le tempeste in mare. Seguono le onde avverse senza contrastarle, ne assaporano le sospensioni e le inclinazioni, le studiano, le conoscono, le godono confidando nella buona sorte per non esserne sopraffatti.

Ecco Silvia, durante la sua prigionia, come forse anche durante il periodo della sua formazione, ha navigato mari a molti di noi sconosciuti, ha accolto l’impulso che le imperava di lasciare ciò che le era noto e familiare, per andare verso l’ignoto, e quindi trovare il nuovo, la salvezza.
Silvia ha cercato e attraverso il suo domandare  ha trovato l’Islam che in qualche modo l’ha salvata facendola rimanere ancorata a terra, rendendola forte e pronta a sopravvivere, ad essere.

Allora, dopo tanto verificarsi viene da chiedersi:  ma se un essere umano riesce ad attraversare gli oceani in tempesta senza lasciarsi distrarre dal peso del passato o dal miraggio del futuro, concentrandosi sull’istante presente e affidare il suo destino alla speranza, come può chi sta a guardare da terra, protetto da tutte le strutture sociali, sanitarie, economiche,  pontificare dal basso della sua comoda poltrona?

Possibile che coloro che lo fanno non hanno la minima percezione che loro e Silvia Romano si trovano su lunghezze d’onda talmente lontane, diverse e asimmetriche che non sono in grado e quindi non possono neanche lontanamente provare ad elaborare un pensiero su di lei?

E questo non perché nel nostro stato è vietata la libertà di opinione e di parola, ognuno può pensare o dire liberamente ciò che vuole ci mancherebbe, ma  sarebbe altrettanto saggio, quando lo si fa, mettere in atto quel minimo di umiltà che aiuti a capire quando e se si è in grado di valutare o meno ciò che abbiamo di fronte.

Se il concetto o la persona sui quali si vuole esprime un’opinione ci appartiene allora è bene essere espliciti altrimenti bisognerebbe avere il meraviglioso buon gusto di tacere, se non altro per evitare di mostrare al mondo la propria miseria  sentimentale ed il vuoto che la sottende.

Il volto e il corpo di Silvia Romano sono stati oggetto di attacchi e critiche ferree; oltre all’abbigliamento islamico con il quale è scesa dall’aereo è stato offeso anche il sorriso con il quale ha salutato l’Italia dimostrando a tutti che l’esistenza, per quanto talvolta possa riservare aspetti dolorosi e tristi, porta con sé la sua innata meraviglia.

Questa ragazza giovane e dall’animo nobile è stata in grado, nel momento più oscuro, pericoloso e crudele della sua esperienza, di dire alla vita, contrapponendo al memento mori, tipicamente cristiano cattolico, il memento vivere, ovvero ricordati di vivere, massima che ubbidisce alle leggi della natura. Vivere il presente fino in fondo, accogliendo le avversità e i doni che ne possono scaturire è l’eredità più importante che ci lascia la sua storia. Considerando poi, ovviamente, che in quella storia (anche nell’adesione all’Islam da parte della ragazza) può aver pesato lo stato di prigioniera, la coercizione da parte dei rapitori. Potrebbe insomma essere frutto di uno scambio, un elemento della trattativa.

Detto questo, ogni individuo deve poter essere libero di seguire i propri impulsi e le proprie tendenze innate poiché  nei momenti più duri della vita saranno proprio questi a risollevarlo e portarlo in salvo.

Gioisci Silvia ! Evviva la libertà.

Paola Margheriti

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