LA VALDICHIANA E IL TEATRO A KM ZERO: LA PIECE GIOVANILE “AMOR FATI”, COME FAR CRESCERE LA PRODUZIONE PROPRIA DELLE COMPAGNIE LOCALI

E a seguire, Giannetto Marchettini, presidente della Fondazione Orizzonti d’Arte di Chiusi, così fa eco al post di Rutelli:
Personalmente concordo anche io sulla validità dell’offerta teatrale del territorio che è ricca e variegata, adatta a platee diverse. Però se parliamo di “offerta culturale a km 0”, dei 4 spettacoli citati e portati ad esempio da Rutelli, solo “Amor Fati” rientra in questa categoria, in quanto scritto, prodotto e allestito da una compagnia del territorio, per di più giovanile, quindi con un valore aggiunto anche superiore, perché fa pensare anche ad una prospettiva. E ad un sedimento che comincia a germogliare.Premetto che non ho visto lo spettacolo, quindi ne parlerò magari più diffusamente quando mi capiterà di vederlo. Leggo che Amor fati affronta il tema del passaggio alla vita adulta, durante il quale ci si lascia alle spalle la giovinezza, periodo della vita in cui il futuro viene visto solo come incertezza e dove tutto appare sempre come origine e nuovo inizio, nel quale ci si immerge in un’apparente eternità per cercare, spesso inutilmente, di scoprirsi e darsi senso. Un gruppo di ragazzi si incontra quotidianamente in “Piazza del Pogo”, epicentro di un paese di provincia di cui non viene mai fatto il nome. La loro vita, scandita da una routine sempre uguale, viene animata dall’avvento di un cambiamento che inizialmente coglie tutti impreparati, ma che darà modo ad ognuno di rivolgere il naso verso il futuro, sul quale, nessuno dei personaggi, aveva mai riflettuto prima. L’intero spettacolo è un viaggio nel loro mondo emotivo, ma anche un modo per affrontare collettivamente dubbi, paure, desideri e incertezze, una spinta a lanciarsi con coraggio verso quel domani tanto temuto. Quindi uno spettacolo di formazione. Generazionale. Una riflessione a voce alta e collettiva. E anche senza averlo visto, dico che nelle premesse, è un tipo di teatro che mi piace e che secondo me va nella direzione giusta. Quella di portare sul palcoscenico cose proprie e non “rivisitazioni” o “cover” di testi altrui, più o meno classici, più o meno impegnati, più o meno divulgativi. Con un teatro di questo genere si va oltre la semplice prova attoriale o di regia. Si costringe il pubblico (ma anche gli attori stessi) a pensare, a riflettere. E si può costringere il territorio stesso a guardarsi dentro.
Poi per quanto riguarda invece gli spettacoli professionali, pur apprezzando i grandi attori e i classici (da Aristofane a Pirandello, da Shakespeare a De Filippo, da Dostoevskj a Pinter…) e ritenendo giusto che i teatri del territorio ne mettano alcuni in cartellone nelle loro stagioni, apprezzo di più il “teatro civile” alla Paolini per intenderci o come gli spettacoli sulla figura di Don Milani proposti in questi giorni, perché a mio avviso aggiungono qualcosa in più. Sono meno “standard”. Non sono mai fini a se stessi. Come certe pieces di grido, sempre belle a vedersi, ma che una volta usciti dal teatro lasciano solo il piacere di aver visto all’opera attori famosi, senza appunto, aggiungere niente che non si sappia già.
Qualcuno dirà: tu parli così, perché scrivi spettacoli teatrali che hanno a che fare con il territorio, con le storie del territorio, spettacoli di teatro a km 0, e perché usi sempre attori, musicisti e tecnici a km zero…
Forse sì. E’ anche per questo. Ma io parlo così e pigio su questo tasto non perché penso di proporre spettacoli di eccezionale valore (ci mancherebbe), ma perché sono convinto che una delle funzioni del teatro, nei territori, oltre a proporre spettacoli belli a vedersi, sia anche e soprattutto quella di far pensare le persone, di dire cose che altrimenti e con altri mezzi è difficile dire, e anche quella di aiutare la conoscenza del territorio stesso e la crescita culturale dei cittadini, creare dei sedimenti che possano germogliare e dare altri frutti, anche come professionalità e capacità tecniche, offrendo delle opportunità di imparare e crescere a chi recita, a chi suona, a chi maneggia luci e audio e scenografie…
Tutto questo per dire che secondo me anche nei festival estivi, nei cartelloni invernali dei vari teatri della zona, oltre agli spettacoli professionali classici o di “narrazione” dovrebbe essere garantito ovunque uno spazio per le compagnie del territorio, stimolandole a produrre spettacoli propri che non siano “cover” ma testi originali e offrendo opportunità per rappresentarli. Cosa che in parte avviene, ma non dappertutto e non sempre. E spesso, laddove avviene, la cosa ha dei costi molto alti e procedure complicate, talvolta insostenibili per una compagnia locale.
Tutti i sindaci della Valdichiana senese in questi giorni, dopo l’assegnazione del titolo di Capitale Italiana della Cultura 2026 a L’Aquila, hanno espresso la propria amarezza, ma hanno anche sottolineato la necessità che il lavoro fatto per sostenere la candidatura della zona non vada perduto e anzi costituisca una base a questo punto “unitaria” e condivisa, su cui costruire le politiche culturali del futuro, da oggi in avanti. Ecco, si potrebbe cominciare da una riflessione su come stimolare la produzione teatrale e musicale “made in Val di Chiana” e su come garantire la fruizione dei teatri e delle sale in maniera accessibile e sostenibile, professionalizzando sempre più le esperienze locali. Hi citato la Val di Chiana, ma lo stesso discorso vale anche per altri territori, quello del Trasimeno per esempio.
Non parlo di esperienze come quelle messe in piedi da primapagina (una decina di spettacoli dal 2006 ad oggi, ultimo “Tradire! La notte prima dell’assedio” che a breve sarà portato anche nelle scuole), ma soprattutto di espierienze di prospettiva come Amor Fati, di Marta Parri.
m.l.
Manfredi lo conosco da anni e spesso si comporta scorrettamente come quando giocò al ribasso per aggiudicarsi la conduzione del laboratorio dei Licei Poliziani per 1.500 € tutto compreso. Adesso non si attribuisce, come tu scrivi, la paternità di Impluvium, ma lo cita giustamente pur dimenticandosi volutamente di altri gruppi. E’ nel suo stile. Per la precisione Emma Bali e Giovanni Pomi fanno anche parte di Formare una Compagnia oltre che di Impluvium. Marta Parri ha cominciato a fare teatro con me al Liceo così come Laura Fatini e molti altri ma credo che questo non interessi a nessuno e comunque era così, per dire. Posso solo aggiungere che sono il solo che entra nei dibattiti politici del territorio e non solo perché credo sia doveroso da parte di un artista. Gli altri, tutti gli altri, preferiscono tacere. Il risultato è evidente: non danno noia a nessuno. Io non ho un teatro e lavoro con bambini, adolescenti e giovani senza nessun contributo. Lavoro anche altrove ma questa è un’altra storia.
Infatti tu sei uno di quelli che seminano e fanno germogliare e crescere le pianticelle del territorio, nel territorio. E quello che dici sul silenzio dei più nei dibattiti politici e anche nei dibattiti culturali, è vero. Non so se sia per non dar noia a nessuno o per non crearsi dei problemi, ma che sia così è un fatto. Invece gli intellettuali dovrebbero parlare più degli altri. Purtroppo non lo fanno più o lo fanno in pochi anche a livello nazionale.
Salve a tutti ,mi chiamo Santaccio ma Anche Ascanio o il Priore o Ferruccio o il narratore . Vivo sul palco a km O ,e xi sono arrivato per sbaglio , sbagliando molto forse ero originale scritto sul luogo di storie del luogo per parlare di pace attraverso la guerra . E io di guerra me ne intendevo .
Cosa ho capito ? Che il tteatro ha una funzione sociale primaria . Per questo il suo valore è superiore ai bilanci che sposta . Zavorrato da orpelli burocratici e che che ne aumentano i costi e ne riducono la fruizione . Si pensi ad esempio alla burocrazia che avviluppa i lavoratori dello spettacolo o le situazioni kafkiane sulla sicurezza che ho avuto modo di intravedere nella mia brevissima esperienza sul palcoscenico .
Il valore strutturale del teatro non è riconosciuto dalla impostazione delle leggi nazionali ma meriterebbe più coraggio anche dalle amministrazioni locali e dalle fondazioni . È un discorso generale non sto puntando ne il sindaco Sonnini ne il oresidente Marchettini.
Ciò non di meno le politiche degli amministratori locali devono spingere per abbattere costi di gestione facilitando.la fruizione anche sperimentale a km O. Infine ma questo riguarda scelte più generali se si spendono soldi per archibugi e colubrine da mandare a quei poveri disgraziati degli ucraini e continuiamo a farevassedi e guerre invece che negoziare labpace i soldi per il teatro ,come per gli ospedali, non ci saranno mai. Parola di Santaccio ….e gli altri
Domanda ad Alessandro Lanzani: ma ciò che hai scritto nelle ultime 6 righe del tuo intervento al riguardo degli archibugi ed alle colubrine, non corrisponde forse ad una logica che si riflette a 360 gradi ? C’è anche chi rimane dentro a tale logica e perciò non la vede,ma si spera che col tempo-semprechè ce ne sia arrivati a tali punti- che le cose dovrebbero iniziare a cambiare,ma ”dovrebbero” nella grammatica è tempo coniugato al condizionale….e le colubrine,gli archibugi e le balestre continuano a far morire le persone.
Concordo con quanto afferma Alessandrto, ma il problema posto in questo articolo circa l’offerta culturale a km zero non riguarda solo l’aspetto economico, e le grandi decisioni nazionali (l’invio di armi all’Ucraina che inficia altre scelte, altri settori) ma anche scelte più specificamente culturali e politiche locali (avulse dalla questione soldi) che tendono a privilegiare certe cose a scapito di altre, ad escludere, più che a includere e integrare. E riguarda la privatizzazione delle strutture culturali e della loro gestione. Su questo mi piacerebbe che si aprisse la discussione e anche su cosa dovrebbe fare il “teatro a km zero”. Io ho detto la mia, può anche darsi che abbia torto. Ma vorrei sentire su questo l’opinione degli operatori, cioè dei teatranti, dei musicisti, dei registi… Anche in un territorio periferico e non vastissimo come La Valdichiana senese e il Trasimeno sono decine e decine di persone. Giovani e meno giovani. Molte con lunga esperienza alle spalle e di qualità professionale (attoriale, di regia, musicale ecc.) elevata. Sarebbe interessante – credo – sapere come la pensano. Due (Alessandro Lanzani e Carlo Pasquini) si sono espressi. Aspettiamo gli altri.
Caro Marco, credo che tu sappia bene la mia idea. Sono assolutamente d’accodo nel favorire due opzioni egualmente importanti e decisive: quella pedagogica e quella professionale. Sulla prima si sta lavorando ovunque piuttosto bene, a partire dalla scuola, e da diversi anni. I problemi psicologici delle giovani generazioni, aumentati con la pandemia, hanno avuto nel teatro una funzione determinante per risolverli. Sulla seconda alcuni teatri stanno seguendo un giusto percorso e tra tutti metterei Sarteano e gli Arrischianti. Mi duole constatare che il Cantiere d’Arte di Montepulciano fa molto poco nella sua stagione di prosa. I suoi interventi sono stati episodici salvo quantomeno offrire il teatro gratis (ma questo è un obbligo contrattuale del Comune). Soprattutto, dietro il paravento dell’ormai vetusta idea henziana del pagare i tecnici ma non gli artisti, si procede senza nessun riconoscimento finanziario obbligando gli artisti di talento ad emigrare mentre si pagano le Compagnie di giro che finiscono per occupare l’intera stagione invernale. Io stesso sono costretto a lavorare altrove se voglio avere un minimo di riconoscimento per il mio lavoro. Questo è uno scandalo; tanto che è stato adottato sempre di più in tutta l’Italia offrendo stage su stage non pagati per allestire spettacoli di prosa e lirica. Colpevole la stessa legislatura italiana indietro anni luce rispetto a paesi come la Francia, la Spagna e la Germania. Per quanto riguarda il tuo argomento su un tipo di teatro “sociale” piuttosto che “artistico” francamente non vedo la differenza. Trattando la natura umana il teatro è sempre sociale, anche quando affronta problemi intimi, sentimentali o filosofici. Abbiamo l’esempio del teatro elisabettiano nel quale questa divisione netta non c’era. Le problematiche del potere si affiancavano perfettamente a quelle dell’animo umano e così è stato anche in tutto il teatro del 900. Poi c’è chi predilige una forma e chi un’altra ma il grande teatro affronta il mondo per quello che è e questa è la sua missione.
Concordo con Pasquini. Non ci si può permettere la distinzione tra “sociale” e “artistico”: ripete il vecchio schema del momento “curturale” e quello ”politico” – con tutti i sinistri retaggi del tempo che fu. Il ruolo del teatro è fissato dai suoi protagonisti, ci piacciano o meno le cose che fanno. Il problema a parer mio è sempre legato a quanto si investe sull’opzione “km 0”. I teatri locali lavorano quasi tutti su un circuito che fornisce loro “chiavi in mano” l’occorrente per la stagione. Fatto legittimo, per carità, ma ha implicazioni e ricadute. Oltre a quelli economici, questo tipo di scelta ha dei grossi costi in termini di autonomia e di sostenibilità. Non è che chi “fa da sé” sia immune da problemi: c’è sempre IL/La direttore/trice artistic* che finisce per condizionare la politica culturale del teatro. Come diceva quel negoziante: “quel che non piace alla massaia, non lo mangi”. Insomma, si tratta forse di scegliere il male minore. Va anche detto che non sempre il km 0 è garanzia di qualità. Il successo di “Amor Fati”, mentre conferma la massima di Keats: “Se la vittoria ha molti padri, la sconfitta è sempre orfana”, mostra anche che non nasce per caso: è frutto di un lavoro altamente professionale ed è figlio di una scelta di investimento coraggioso. Non so se Impluvium riuscirà a rientrare dei costi sostenuti, ma so per certo che nessuno li ha aiutati. Quale politica culturale è possibile se si ignorano i costi che gli operatori affrontano? Come aiutare gli operatori senza scadere nell’assistenzialismo o nel nepotismo? Oggi si valutano i progetti in base ai costi. Quel che costa meno, quello si prende. Questa miopia scatena sempre la guerra tra poveri. Ma, siamo sinceri, chi saprebbe dare un indirizzo di politica culturale, oggi, a prescindere dal metro economico?
Per Enzo Sorbera.Per quasi tutta la tua esposizione mi trovi d’accordo e chiaramente anche con i limiti a cui tu ti riferisci per la cultura sciorinata e chiamiamola così- come le carte di credito- ”prepagata”. Diventano dei paletti ineludibili oggi, in un epoca di ristrettezze, dove tutti affermano che con la cultura si potrebbe mangiare ma gli stessi ”tutti” e nessuno escluso di coloro che ci hanno goverato fin’ora si sono sforzati per elaborare un modo che possa essere alternativo al ”prefabbricato”.
E’ nelle cose che tale ragione dipenda dal fatto delle sostanze messe a disposizione, ma se attendiamo qualcosa che venga dall’alto, ”il bambole non c’è una lira” non cambia e produrrà sempre effetti nefasti o perlomeno gabbie culturali osservando le quali i più ritengono di non appartenere contrariamente alla invece realtà ed anche sul pensare che esistano vie tracciate per il riscatto intellettuale.L’ultima riga del tuo intervento è realista di certo ma io tenderei a considerare che talvolta (e non sempre chiaramente) anche un modesto intervento se applicato con intelligenza renderebbe alle coscenze e spianerebbe la strada a mondi dai quali si possa far partire una catena produttiva di tutto rispetto, uscendo dai canoni ed ancorpiù basandosi sulla conoscenza ma anche spesso sull’eclettismo psicologico che ne può stare dietro, magari evidenziato da osservazioni e fatti che possano apparire anche inutili.E partendo dal fatto che nulla sia inutile,talvolta si aprono mondi interi che si riconducono a principi e ad storie solide e ferree.L’arte non è solo immaginazione e fantasia ma è la capacità di saper vedere nelle cose certe realtà e quindi spesso rispetto a molti argomenti i soldi sono come i paletti di plastica che limitano la corsia di asfalto nell’autostrada,che se li tocchi col parafango della macchina cadono ma non ti danneggiano la carrozzeria.Molte volte ho pensato a questo soprattutto per la materia della quale mi interesso che è ed è stata principalmente la fotografia e le mostre che ne possano derivare e nella scarsità di mezzi che ci circondano osservo che anche all’interno di tematiche ”prettamente fotografiche” che abbiano dei risvolti reali e sociali ben definiti, si possa trovare un mondo che non richieda grandi impegni economici per essere divulgato ad altri. Personalmente ho amici che hanno messo in mostra e realizzato immagni commoventi anche con poche sostanze ma due cose occorrono e delle quali non se ne può fare a meno : la sensibilità d’animo che fà scaturire la scelta legata all’osservazione e la conoscenza del tema che è un vissuto legato alle emozioni che sono di noi.Se in questo campo della cultura(parlo esclusivamente della fotografia) si riesce a tirar fuori la strada per compiere un percorso che sia la sorgente di pensieri produttivi, avremmo battuto il viatico giusto per porci davanti al significato che è racchiuso dentro ogni cosa, esplorarlo e divulgarlo e farlo anche patrimonio di altri.
Carlo Sacco. Nessuno può essere in disaccordo con quanto dici. La produzione di cultura senza aspettare il “la” da qualcuno è un fatto che dovrebbe essere normale. Il problema che io – insieme ad altre persone – pongo è che anche gli artisti mangiano. E non solo qualche volta: hanno il “vizio” dei tre pasti (magari magri) quotidiani. Fuor di metafora. In generale,si tende a cercare/premiare la produzione di cultura a costo zero. Ma questo può realizzarsi solo come hobby, e solo da parte di chi ha un reddito. Chi, per malaugurio, dovesse scegliere la cultura come fonte di reddito (per campare, non per arricchirsi), è costretto in camicie di forza o non ha spazio. L’idea dell’artista come operatore di mercato (senza i contesti necessari) è destinata a penalizzare soprattutto la ricerca (che è l’alimento principale di chi fa cultura). La chiusura dei centri come quello di Pontedera sono un segnale di allarme. Se non si vuol ridurre la cultura a una sequenza un po’ macabra di monumenti e tombe, ma la vogliamo viva e vitale, dobbiamo provare a fornire risposte in termini concreti. C’è necessità di riflettere e di coinvolgere i vari operatori. Questa operazione di confronto con gli operatori, che avevo proposto a suo tempo ma che ha trovato la fiera opposizione di chi mi ha accusato di eccessivo protagonismo, è un passaggio ineludibile. Non basta il lavoro istituzionale, bisogna sporcarsi le mani con il quotidiano dei bisogni e delle necessità, essere ricettivi rispetto alle proposte e cercare di fornire supporto. Ma forse è chiedere troppo.
Infatti è proprio per questi motivi che l’articollo sollecita a trovare soluzioni e strade per favorire la “produzione culturale a km zero” (musicale, teatrale, artistica..) che non sia solo una scimmiottatura delle cose che fanno gli “artisti professionisti”, ma sia produzione vera, ccompresa la costruzione di spettacoli propri, pensatim, scritti e rappresentati da compagnie del territorio. E magari abbiano pure attinenza con il territorio. Per fare ciò ovviamente occorre che le compagnie locali si sforzino di proporre cose loro crescendo in inventiva e professionalità, ma anche che gli spazi siano frubili e a costo accessibile, che gli eventi tipo stagioni, rassegne e festival mettano in cartellone tali rappresentazioni e non le considerino roba di fascia C… Che le normative e i balzelli burocratici non siano insormontabili. Che i locali possano proporre musica live senza avere la polizia ogni volta a spegnere gli amplificatori… Faccio un esempio: il Lars Rock Fest è un grande evento, il più rilevante che avviene a Chiusi e porta a Chiusi e in Valdichiana musica che altrimenti sarebbe difficilissmo ascoltare, ma se nel contempo non favorisse pure l’opportunità di far ascoltare anche musica di band nate e cresciute nel territorio, rischierebbe di rimanere un bell’evento, ma senza ricadute e sedimenti reali in loco. Per fortuna quelli che lo organizzano qualcosa in tal senso fanno tra una edizione e l’altra. Ma anche lì si potrebbe e dovrebbe fare di più. Questa è una questione annosa, se ne discusse molto ai tempi del Festival Orizzonti targato Cigni. Se ne è parlato a volte in relazione al Cantiere d’Arte di Montepulciano o di alcune stagioni teatrali. A tal proposito come Primapagina nell’ormai lontano 2012 proponemmo gli “Stati generali della cultura” proprio per parlare anche di cose di questo genere. La politica si mostrò totalmente sorda. Il Comune di Chiusi mise in piedi qualcosa di simile, nella forma, ma la cosa rimase troppo sul vago e non servì praticamente a niente, perché non si ebbe il coraggio di discuterne sul serio.
Per Enzo Sorbera.Circa un anno fà ho saputo una cosa che non avrei mai immaginato e che riguardava la politica che sulla cultura-credo anche in Provincia di Siena- si svolgeva per ” gabbie preconfezionate”.In pratica proprio perchè ”bambole un c’è una lira” evidentemente si è pensato a livello dirigenziale del partito di maggioranza in Toscana di spargere una serie di prodotti culturali impacchettati e preconfezionati da presentare ai vari territori facendo quindi un percorso lecito per quanto possa riguardare la cultura di massa e nulla da eccepire su questo, ma allo stesso tempo spazzando via le varie e possibili iniziative degli artisti locali,che non hanno più trovato sostegno alcuno, anzi, sono stati esautorati ed invece che mangiare una volta al giorno a questo giro sono cresciute loro le ragnatele nello stomaco. Ora, che la periferia non sia la fucina dell’avanguardia questo và detto ma la peculiarità di un paese in campo culturale si misura anche sulla presenza dei suoi cittadini disposti a sporcarsi anche le mano come dicevi te e questo discorso su Chiusi credo che sia latitante proprio per i vincoli storici e le relazioni amicali degli amici degli amici.Come si vede anche qui determinante è la politica e l’intelligenza o meno con la quale venga condotta.Il tutto poi non dimentichiamo che riguarda anche un notevole esborso di risorse finanziarie per privilegiare iniziative che aggradano a certuni e che spesso non lasciano nulla nella coscenza delle persone ed anche portate avanti con cani da guardia mediatici a ciò che venga deciso. Ma risiamo sempre alle solite e diciamocelo francamente che chi vorrebbe sporcarsi le mano come dici te non è che sia molto incentivato sia dalla ricettività pubblica degli abitanti che trane pochissimi non hanno mai scalpitato per afferrare un lembo di cultura sia anche non si è sentito uno scalpitio da parte di quella delle istituzioni. L’iper-criticismo regna sovrano e le varie componenti che potrebbero determinare un atteggiamento diverso da parte del settore pubblico vedo che fanno scattare ad ogni piè sospinto gelosie, rimbrotti, critiche,piccole storie di contrapposizione fra praticanti che fanno si che appaia che tutto il mondo ce l’abbia con loro.Guarda Enzo, ho nominato il settore della fotografia perchè a me riesce bene o male a barcamenarmi in questa disciplina, ma dopo tanti sforzi e far balenare possibilità future per la gestione del mio archivio ho dovuto ricredermi e le iniziative piccole che ho prodotto solo con le mie mano sono state il segno che all’intorno c’è un terreno secco al punto da essere paragonato a quelle foto del Sahel dove si vedono croste di terra senza un lembo verde attorno.La storia di queste cose è ormai nota almeno per me,e se ho dovuto fare e realizzare qualcosa mi sono sempre frugato in tasca perchè lo potevo fare almeno nella misura delle cose che ho realizzato proprio perchè come dici tu non è una attività con la quale mangi, ma se avessi atteso qualcuno dalla politica che mi avesse detto o proposto iniziative della valorizzazione dell’archivio per fare mostre,campa cavallo che l’erba cresce.Questo insegna che il concetto che da qualche anno è penetrato nella testa degli italiani per il quale con la cultura si potrebbe campare sia un concetto fuorviante perchè anche la stessa cultura dipende dalla volontà politica ed anche dall’intelligenza politica dei governanti riferita soprattutto al piccolo luogo, ai comuni e talvolta anche a luoghi più grandi. Quindi vero è quel detto che racconta che l’Italia è un paese con la presenza di una grande cultura ma il cemento che la tiene insieme è l’ignoranza e sono altrettanto sicuro che per adesso la cosa non cambia, anzi si ripiega su se stessa perchè-diciamocelo francamente- anche nei nostri paesi mancano le risorse economiche ma accanto a queste manca anche un respiro più grande e se pensiamo a quanti soldi gli eletti dai cittadini in questi ultimi venti anni hanno gettato dalla finestra senza alcuna considerazione e nessun risultato proscigando e rendendo asfittiche le casse, credo si possa parlare di svariate decine di milioni di euro a cominciare dal Palapania. E allora di cosa parliamo dei ”tavoli della cultura ?”. E’ la cultura che è costretta ”al tavolo” altro chè…