APP IMMUNI. A CHE SERVE SE È SU BASE VOLONTARIA?

venerdì 24th, aprile 2020 / 11:42
APP IMMUNI. A CHE SERVE SE È SU BASE VOLONTARIA?
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Gli articoli di primapagina relativi alla App Immuni annunciata dal governo hanno ri-aperto il dibattito sulla privacy dei dati, un tema tanto caldo quanto oscuro dai tempi dei primi insediamenti della Rete nella vita umana.

Da un lato i sostenitori della privacy perduta da cui l’inutilità stessa del dibattito, dall’altro quelli che la tecnologia è infida a prescindere, i ladri di dati dove li mettiamo-nonmiregistromancomorto.

Non c’è dubbio che i nostri dati sensibili fluttuino nell’etere già da anni. Wired.it calcola che due miliardi e mezzo di persone navigano in Rete, oltre un miliardo sono su Facebook, 550 milioni suTwitter. Tutto ciò che si dicono, tutte le informazioni che si scambiano viaggiano in Rete .

Insomma, un esercito di Pollicini 3.0 che ad ogni clic o like lascia traccia dei propri gusti, pensieri, sensazioni, interessi, odi e amori in giro per il web. Epperò lo facciamo ( o non lo facciamo) nel pieno delle nostre facoltà. Nessuno ci costringe a comprare su internet, ad essere Social o a circondarci di cellulari e tablet connessi e geolocalizzati H24. Niente di tutto ciò è richiesto dalle amministrazioni di enti  statali o è obbligatorio per accedere a servizi pubblici.

Intendiamoci, i Big Data sono un capitale ad alto potenziale di profitto, e fanno gola.  Comunque la si pensi, sostiene Antonello Soro, autore del saggio Democrazia e potere dei dati – Baldini e Castoldi, 2019-  le aziende che fanno parte del mercato del digitale non possono fare a meno dei dati. Il problema è che il loro utilizzo è ancora poco chiaro soprattutto se si considera che tali aziende sono strutture private, non neutrali, orientate al proprio interesse e guadagno. E si sa, il fine giustifica i mezzi.

Il punto però è proprio questo, la non neutralità di chi dispone dei dati non garantisce la tutela della privacy. Per capirci, prima ancora di Zuckerberg, Bezos e Mr Google, i nostri dati, per quanto scevri da gusti e interessi,  sedevano già negli archivi dell’Inps. Non per scelta ma per obbligo. E l’Inps è una struttura pubblica, neutrale, a cui i dati servono per erogare in maniera tracciabile e trasparente un servizio pubblico, non per vendere un prodotto o influenzare un voto.

Il dibattito scivola quindi più sul “chi” realizza e/o gestisce una App che sul “come”, in quanto il secondo non può prescindere dal primo. Se le aziende che realizzano il dispositivo sono private, come in questo caso, è evidente che la zona grigia si allarga. E sì Giuseppi tranquillizza, la App è essenziale ma su base volontaria.  Chi non la scarica non subirà limitazioni. Bene. Ma allora a che serve? Se la tracciabilità di eventuali contagiati è solo parziale, che abbiamo risolto? Sulla non discriminazione poi non ci metterei la mano sul fuoco. In un paese incattivito, incavolato e spaccato dalla qualunque, più fatto per viver come bruto che per seguir virtute e conoscenza (con buona pace del Sommo), vuoi che non si gridi all’untore ad ogni buona -si fa per dire- occasione?

Diverso sarebbe  il discorso se il dispositivo fosse stato sviluppato da un’agenzia dello Stato, come avvenuto in Cina, dove il concetto di privacy non è equiparabile a quello dell’Occidente, e dove l’intento dello Stato è di maggiore controllo sulla popolazione, ma non ne parleremo qui ed ora. Infatti, il giurista Giovanni Maria Flick consiglia al Governo di affidare ad un’autorità pubblica il controllo dei dati raccolti che, secondo quanto previsto, dovranno essere distrutti a pandemia superata.

Al momento però niente di certo. Non sappiamo chi gestirà i dati, non abbiamo garanzie sulla distruzione degli stessi post-Covid, nè certezza che le aziende che li hanno incamerati non ne facciano un uso improprio.

Lo scopriremo, come sempre, solo vivendo. E discutendone animatamente su questi ameni schermi

Elda Cannarsa

 

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