LA LAUREA SERVE? LA FORMAZIONE E’ UN COSTO O UN INVESTIMENTO?

martedì 05th, marzo 2019 / 11:06
LA LAUREA SERVE? LA FORMAZIONE E’ UN COSTO O UN INVESTIMENTO?
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Corre voce che la laurea sia solo un pezzo di carta. Una voce grossa, diffusa, penetrante, che viene dall’alto per il tripudio del basso. La laurea non serve. Lo dice la politica istituzionale, qualche imprenditore tipo Briatore, qualche uomo di spettacolo tipo Banfi.  Tutti tizi, guarda caso, che quel pezzo di carta non ce l’hanno.

Ma sono personaggi popolari e il messaggio arriva dritto al segno: non serve una laurea per avere successo, se per successo intendiamo soldi e attimi di gloria glitterata. E infatti deve essere proprio quello che intendiamo se meno del 27% degli italiani tra i 30 e i 34 anni ha un titolo di studio terziario. Un dato rimasto invariato negli ultimi dieci anni, che ci ha posizionato al penultimo posto tra i paesi dell’unione europea ( Eurostat 2017).

Daje oggi e daje domani, ci siamo convinti che la laurea non garantisce migliori o maggiori opportunità di accesso al lavoro perchè il nostro sistema educativo di istruzione non è adeguato alle richieste del mercato. Non è capace cioè di sfornare soggetti economicamente produttivi e pronti all’uso. Mentre google e l’isola dei famosi sì. Ragion per cui sono anni che, nelle alte sfere, i ministri dell’istruzione riformano e rivoltano come un calzino i criteri dell’apprendimento, attingendo un po’ al modello anglosassone, un po’ a quello scandinavo, un po’ a quello che capita nel tentativo di confezionare soggetti economicamente produttivi e pronti all’uso.

Ora, non è che le riforme non si debbano fare. Anzi, sono necessarie, funzionali ai mutamenti sociali, culturali, geografici dell’era moderna. Pensiamo a digitalizzazione, tecnologia, globalizzazione, mobilità, equiparazione di titoli, e via discorrendo. Ma la sensazione è che si stia confondendo l’istruzione con la formazione, che stiamo cioè mescolando i luoghi del sapere con i luoghi dell’addestramento, generando un ibrido dalle sfumature indefinite che diventa impossibile gestire. O riformare con efficacia.

Ecco l’equivoco. Istruzione e formazione appartengono a sfere diverse. La prima spetta al sistema educativo, la seconda al mondo del lavoro (privato o pubblico che sia).  Nessun percorso di studi può preparare uno studente ad entrare a piè pari nel mercato. Semplicemente perchè non è quella la sua funzione.

Un percorso di studi ha altri obiettivi: la formazione della persona in quanto individuo, cittadino ed essere pensante. E non è poco. Deve fornire l’abilità di riflettere, approfondire, porsi domande, dibattere con argomentazioni valide; di raffigurare la complessità e la varietà dei problemi delle realtà con cui dovrà confrontarsi. Deve dotare di categorie analitiche e interpretative, di una forma mentis duttile, in grado di affrontare problemi diversi da quelli incontrati nel corso degli studi. La rigidità mentale è sempre foriera di valutazioni tanto errate quanto dannose.

In questo senso il tormentone sull’inutilità delle materie umanistiche a favore degli indirizzi tecnico-scientifici appare anacronistico rispetto proprio a quelle capacità che oggi ( ma anche ieri) il mondo del lavoro richiede. Scrive Lorenzo Tomasin, ordinario di storia della Lingua italiana all’Università di Losanna:” la versatilità dei laureati del settore nasce da una «predisposizione psicologica»: chi si iscrive a lettere antiche o filosofia della scienza è già abituato all’idea che potrà o dovrà reinventarsi in un ambito diverso da quello di studi, applicando altrove la duttilità di pensiero acquisita”.

Per dire, Marchionne era laureato in filosofia. Olivetti rimarcava l’importanza del connubio tra letteratura e tecnologia, Cucinelli definisce i propri dipendenti “anime pensanti”. Nel sito della sua azienda si legge:  ho capito che il valore economico è nullo senza quello umano, dal quale pertanto il primo non può prescindere. Illuminati, visionari, chissà, ma sicuramente uomini di affari e di successo.

Più che soggetti economicamente produttivi, l‘istruzione deve quindi sfornare soggetti pensanti, capaci di comprendere informazioni complesse, di essere creativi, di comunicare con efficacia. Peraltro, se proprio la vogliamo dire tutta, e sfatare il mito dell’inservibilità della laurea una volta e per sempre, il rapporto 2018 di Almalaura sulla condizione occupazionale dei laureati dice che: a un anno dalla laurea lavora il 71,1% dei laureati di primo livello (+2,9% rispetto al 2006) e il 73,9% dei magistrali biennali (+3,1%). Pertanto, conclude: laurearsi convieneAll’aumentare del livello del titolo di studio posseduto diminuisce il rischio di restare intrappolati nell’area della disoccupazione. Generalmente i laureati sono in grado di reagire meglio ai mutamenti del mercato del lavoro.

Dunque il problema non risiede nei luoghi accademici quanto piuttosto in quelli della formazione. È lì che bisognerebbe intervenire. È impensabile che un percorso accademico produca d’emblèe la pluralità di figure professionali di cui il mercato del lavoro, in continuo rinnovamento, ha bisogno. Sta alla formazione, appunto, crearle o aggiornarle.

Ammettiamo una volta per tutte che il vero punto dolente in Italia è la formazione. Lo riscontriamo quotidianamente tanto nel privato quanto nel pubblico dove la professionalità non è una regola ma l’eccezione. E, infatti, per quanto riguarda per esempio il privato, basandosi sui dati riferiti del 2015, l’Istat rivela che il 74% delle aziende italiane, prevalentemente piccole e medie imprese, ritiene che la formazione non sia necessaria perchè i dipendenti sono già qualificati. Non se la passa meglio la formazione pubblica, come rileva un esauriente articolo pubblicato daLinkiesta nel 2017.

La formazione è ancora considerata un costo e non un investimento. Un errore grosso e grossolano che ostacola il potenziamento di qualità, professionalità e competitività sul mercato del lavoro europeo. Per capirci, possiamo avere le più grandi risorse del pianeta ma se non sappiamo come realizzarle, proporle, comunicarle o ottimizzarle, è quasi come non averle.

Elda Cannarsa

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