Parole, parole, parole

lunedì 08th, ottobre 2018 / 13:00
Parole, parole, parole
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A grande richiesta, tornano sugli schermi certi pensieri sparsi e non richiesti. La porta dell’inverno è aperta. Portate pazienza se, ufficialmente, ancora non è entrato.

Insomma è successo che qualche sera fa, in uno di questi programmi di diciamo approfondimento giornalistico che deliziano l’audience italiana, una certa senatrice di Forza Italia (che in quanto a deliziare pure non scherza) ha sciorinato una serie di dati sull’immigrazione – tema che insieme alla condanna a morte del PD e il reddito di cittadinanza occupa, credo, il 99,9% dei dibattiti di politici, cittadini, social, gente del  bar, cani, gatti e canarini- che il sociologo presente in studio ha contestato in quanto, a suo avviso, risultavano accurati solo in parte.

Ma il punto, scusate se mi dilungo, non è questo. Il punto che mi interessa analizzare è la definizione del linguaggio. Mi spiego. Parlando di chi entra nel paese senza permesso, la senatrice ha usato più volte il termine “immigrati”. Il sociologo, tra un’interruzione e l’altra da parte della suddetta, poco nota per garbo e propensione all’ascolto, ha invece espresso la preferenza per il termine “irregolari”, sicuramente perchè, in quanto sociologo, ha una discreta cognizione della funzione  ( e del potere) del linguaggio. L’ahimè senatrice, non possedendo evidentemente alcuna nozione in materia, ha fatto spallucce, liquidando la precisazione con la seguente frase: il linguaggio è una convenzione. Ovvero, qualcosa di accordato tra più persone (o Stati) per regolare una determinata attività. Tipo le Convenzioni di Ginevra, per dire. Ma non la Convenzione dell’Accademia della Crusca che, sempre per dire, non esiste.

Ma torniamo al punto. Definire il linguaggio una convenzione, in questo caso, equivarrebbe a dire che parlare di immigrati o di irregolari è esattamente la stessa cosa. E invece non è così.  Il termine “immigrato”, secondo il vocabolario Treccani, si riferisce a chi si è stabilito temporaneamente o definitivamente per ragioni di lavoro in un territorio diverso da quello d’origine, mentre  il termine” immigrato irregolare” significa privo di permesso di soggiorno, cioè quel tipo di straniero (si potrebbe chiamare anche così, volendo,) a cui faceva riferimento la signora del senato. Dunque, se il vocabolario rientra nelle regolamentazioni della convenzione, la senatrice avrebbe usato il termine errato.

Se aggiungiamo che attualmente la parola “immigrato” ha assunto un significato altro dalla definizione letterale, diventando un dispregiativo, sinonimo di cialtroneria, parassitismo, opportunismo, appare evidente innanzitutto che una convenzione linguistica deve ammettere la variabile della mutevolezza, e che in virtù di questa variabile, la precisazione del sociologo non era solo linguistica ma anche e soprattutto politica.

In altre parole, tanto la senatrice quanto il sociologo hanno deliberatamente adottato un termine a scapito di un altro, esprimendo una posizione e una valutazione ben chiare: la prima ha voluto enfatizzare le caratteristiche negative degli immigrati (i suoi dati si riferivano alla criminalità e allo stupro), facendo di tutta un’erba un fascio; il secondo ha voluto dissociarsi da una posizione che non ritiene nè valida nè credibile.

Si dà il caso quindi che se vogliamo definire il linguaggio come una convenzione, dovremmo anche convenire che esistono più convenzioni. A questo punto però la questione diventa assai complessa: per comprendere un certo linguaggio bisognerebbe conoscere la convenzione a cui quel sistema linguistico appartiene. All’interno di una stessa lingua, infatti, esistono più linguaggi possibili il cui uso avviene in funzione di determinate regole. Ogni linguaggio pertanto è valido solo se si rispettano e si conoscono quelle determinate regole. Ma se non si conoscono?

La funzione del linguaggio è oggetto di studio secolare, non sarò certamente io a risolverne le problematiche. E però in questo caso mi sembra più appropriato parlare di linguaggio in quanto strumento, peraltro molto efficace, di costruzione o ri-definizione della realtà. Un concetto che mette in posizione di subalternità la presunta supremazia della convenzionalità.

Lo spiega in maniera molto chiara Gianrico Carofiglio nel libro Con parole precise. Breviario di scrittura civile quando scrive: “Mi ha sempre affascinato l’idea che le parole – cariche di significato e dunque di forza – nascondano in sè un potere diverso e superiore rispetto a quello di comunicare, trasmettere messaggi, raccontare storie. L’idea, cioè, che abbiano il potere di produrre trasformazioni, che possano essere, letteralmente, lo strumento per cambiare il mondo.”

Vediamo nel concreto. Quando parliamo,ad esempio, di “ri-qualificazione” di una struttura, stiamo esprimendo un’idea di miglioramento e innovazione da cui tutti trarranno beneficio. Ma se invece, riferendoci alla medesima struttura, parliamo di “conversione”, stiamo semplicemente descrivendo un cambiamento, senza alcuna valutazione di merito: questo edificio prima era in un modo, ora sarà in un altro, punto.

È chiaro che se da quella ristrutturazione trarremo un qualsivoglia vantaggio o ci interessa che appaia come l’ottava meraviglia, utilizzeremo il primo termine. Se al contrario, non ce ne può fregare di meno, useremo il secondo. Tuttavia, nello scegliere o l’uno o l’altro cambieremo la percezione e dunque il destino della struttura che verrà.

È quasi banale, tanto da meravigliare che una signora che arrivi a coprire l’alta carica di senatrice non ne abbia alcuna consapevolezza, affermare che il linguaggio contiene  il germe della strumentalizzazione, e che le parole sono diversamente utilizzate a seconda di come vogliamo rappresentare la realtà (che, per inciso, non è mai una).

Pur non essendo un linguista, a dimostrazione che non è necessario essere del campo ma basta avere una capacità di analisi, osservazione e conoscenza (anche minima) delle proprietà del linguaggio, l’architetto Renzo Piano, in un’intervista a “Che Tempo Che Fa”, per quanto non credo fosse questo il suo scopo, ha evidenziato proprio il valore delle parole, spiegando come la parola “bellezza” non si riferisca solo al mero aspetto estetico ma implichi sempre un’associazione all’idea di bontà.

È  quando parla dei genovesi, però, che la lingua come strumento di costruzione della realtà si fa più chiara. Nel linguaggio collettivo (convenzionale, direbbe la nostra senatrice) si dice che i genovesi siano tirchi, diffidenti e chiusi. E se il linguaggio fosse effettivamente legato ad un’unica  convenzione, questi tre termini sarebbero gli unici possibili per descrivere il popolo genovese, oppure ne potremmo usare altri, ma sarebbe esattamente la stessa cosa. Invece no.

Renzo Piano li definisce rispettivamente parsimoniosi, prudenti e taciturni. È lo stesso popolo? Esattamente lo stesso. A cambiare è la sua rappresentazione. E l’impatto sul mondo esterno è completamente diverso. Una cosa è essere tirchio, di manina corta, altra è essere parsimoniosi, cauti nello spendere. Qualcuno potrebbe obiettare che si tratta di un eufemismo, naturalmente, ma da quale punto di vista? Non certo da quello genovese.

La verità è che conoscere e usare bene le parole è un dovere civico. Sempre Carofiglio, nel suo breviario, fa presente che ” le società vengono costruite e si reggono essenzialmente su una premessa linguistica: sul fatto cioè che dire qualcosa comporti un impegno di verità e di correttezza nei confronti dei destinatari”. Parlare di immigrati o di irregolari, di ri-qualificazione o conversione, di tirchi o parsimoniosi, suvvia, non è la stessa cosa.

E dunque se di convenzione dobbiamo parlare, sapere che le parole possono in egual modo creare e distruggere, dovrebbe essere il fondamento della sua regolamentazione, aldilà dei significati e dei significanti. Solo in questo caso si potrebbe parlare di universalità della convenzione del linguaggio.

 

 

 

 

 

 

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