CHE GUEVARA, IL MITO DELLA SCONFITTA
Ieri era il 9 ottobre. E il 9 ottobre di 50 anni fa moriva Ernesto Guevara de la Serna, detto El Che. Trucidato a sangue freddo in un villaggio ai margini della giungla boliviana dai militari mandati a fermare la ‘guerrilla’.
Sui social la ricorrenza è stata ampiamente ricordata. In tanti si sono scatenati nel postare fotografie, ricordi, video, canzoni in memoria del rivoluzionario più romantico del ‘900.
Anche io sono tra quelli che a 17 anni il poster del Che attaccato in camera ce l’avevano. Anzi ce ne avevo due: la foto di Korda pubblicata da Feltrinelli e un “ritratto a tecnica mista” che avevo fatto da solo con china e acquerello… 17 anni significa 1973, sei anni dopo la morte del Che. Eppure ogni volta che l’occhio mi cadeva su quelle due immagini mi tornava in mente la notizia dell’uccisione data dal Telegiornale nel ’67. Ero un bambino, ma quella cosa mi rimase impressa anche se allora non avevo idea del perché fosse così importante quel “guerrillero”.
Mi sembrò un eroe da film western, di quelli che già cominciavano a circolare, con gli eroi non proprio tutti d’un pezzo, impolverati, con la barba incolta e una certa tendenza a stare coi più deboli… O un eroe da fumetto. Una sorta di Tex Willer non invincibile, più umano. E infatti l’avevano preso e fatto fuori… Ed è lì, in quell’epilogo tragico, che secondo me è nato il mito del Che.
Anche Lenin è stato un grandissimo rivoluzionario, 50 anni prima del Che, ma Lenin non ha avuto la faccia stampata su milioni di magliette, non ha avuto una canzone cantata in tutto il mondo… E neanche Gramsci. Perché Lenin e Gramsci non sono morti nella jungla. Ma anche perché “gli eroi son tutti giovani e belli” e loro non erano – diciamolo – giovani e belli come El Che Guevara. Se invece che con quella divisa sgualcita, il basco con la stella, la pistola alla fondina, i capelli al vento e lo sguardo dritto nel futuro, il Che fosse stato fotografato in giacca e cravatta, senza capelli, gli occhiali e un po’ di pancia, come tanti ministri o dirigenti politici dell’epoca non avrebbe avuto lo stesso appeal. Quando lasciò Cuba e sbarcò in Bolivia, dove provò ad esportare la revoluciòn, appariva così, ma era un travestimento per non farsi riconoscere. E quello non era “El Che”.
Ma al di là dell’immagine di eroe romantico, giovane e bello, e pronto a dare la vita per la causa, cioè per la rivoluzione, è con quella morte – annunciata peraltro prima che avvenisse – che Ernesto Guevara è diventato l’icona che è diventato. Il mito del Che è sì il mito del coraggio, ma anche il mito della sconfitta.
Soprattutto a sinistra, nella sinistra libertaria, non ottusa stalinista e burocratica, nella sinistra del pensiero libero, la sconfitta non solo fa parte del gioco. Secondo me è… nel Dna.
C’è qualcosa di profondamente sudamericano (e di argentino in particolare) in tutto questo, ma c’è anche qualcosa che ha a che fare con quella che qualcuno ha chiamato l’etica della sconfitta, il valore del gesto estremo di chi sa di essere nel giusto, ma sa anche che non vincerà.
Ricordo una splendida lezione sull’etica della sconfitta tenuta una quindicina di anni fa da un compatriota del Che, argentino pure lui: Julio Velasco, allenatore di pallavolo. Velasco partiva dallo sport, per andare a parare oltre. Forse è rintracciabile su youtube. Consiglio di andarsela a cercare… Illuminante.
E, ora che ci penso, mi torna in mente anche uno spettacolo teatrale che allestimmo a Chiusi e Città della Pieve, qualche anno fa, nel 2010: si intitolava Bisogna saper perdere. Si parlava per lo più di musica, ma si voleva andare a parere altrove anche lì… Era uno spettacolo sul senso di sconfitta di una generazione, quella guarda caso cresciuta con i poster del Che nelle camerette e con il rock dei Led Zeppelin, dei Creedence e dei Pink Floyd in sottofondo…
Certo, se Che Guevara fosse morto nel suo letto per un attacco di asma di cui soffriva, se fosse rimasto vittima di un incidente aereo come il suo amico e compagno Camilo Cienfuegos (ammesso che si trattò di un incidente, ma questo è altro discorso), e non fosse stato ucciso dopo esser stato catturato dai governativi boliviani, non sarebbe diventato El Che. L’immagine del suo cadavere esposta e fatta riprendere dalle tv di tutto il mondo non sarebbe stata paragonata al Cristo morto del Mantegna, uno dei più suggestivi mai dipinti. E non ci sarebbero state nemmeno tutte quelle magliette, tutti quei poster, tutte quelle bandiere…
Ovviamente il periodo in cui il fatto successe, ha avuto il il suo peso. Erano gli anni della guerra del Viet Nam, dell’esplosione del rock e della pop art, del pugno nero guantato di Tommy Smith e John Carlos, era in pratica l’inizio del ’68… La società dell’immagine stava prendendo il sopravvento. E l’immagine del Che, quella bella immagine tratta dalla foto di Korda, si prestava eccome a farne un mito immortale. Buono per la sinistra romantica e libertaria, buono per i maoisti che si contrapponevano all’epoca al comunismo sovietico, buono per i sostenitori della revoluciòn cubana cui El Che partecipò attivamente e buono anche per gli anticastristi che nell’addio a Cuba di Guevara videro un contrasto con Fidèl, sempre più filosovietico… Buono anche per chi con la sinistra non ha nulla a che fare ma ha sempre coltivato il mito del coraggio individuale e della bella morte col pugnale in mano…
Personalmente resto affascinato dalla figura di Guevara, ma avverto pesantemente quel senso di sconfitta, anche generazionale, che la sua esperienza promana. Molti della mia generazione negli anni immediatamente successivi non capirono la lezione di quel 9 ottobre ’67. Provarono a fare la rivoluzione sbagliando tattica, bersagli e strategia; altri si sono piegati e assuefatti alle logiche “vincenti” e così la sconfitta è diventata una disfatta. Su tutti i fronti o quasi. Unica consolazione l’aver ascoltato belle canzoni e aver visto giocare Best, Rivera, Antognoni e Cruijff.
Tra l’esaltazione del vincente che negli ultimi 30 anni ha trabordato ovunque, dalla scuola ai media, alla politica, e l’etica romantica e perdente dell’eroe sconfitto io preferisco la seconda. Per indole e perché appartengo ad una generazione di sconfitti. Se qualcuno della medesima generazione ci ha lucrato e ha fatto pure i soldi o carriera non vuol dire che avesse ragione. Ha avuto fiuto, al massimo.
Io tifavo Gimondi, che era un grandissimo, ma contro Merckx perdeva e arrivava secondo. Tifavo Fiorentina che in quegli anni vinse uno scudetto, ma poi non ne ha più visto uno nemmeno in fotografia. Diventai pure comunista, militante. Eravamo tanti, ma non abbastanza. Quando ascoltavo il telegiornale stavo con i vietnamiti, come al cinema tenevo per gli indiani contro le giacche blu. E’ quando hai 17-18 anni che ti fai un’opinione e un’idea politica… Io a 17 anni, con il poster del Che appeso in camera, vidi Allende morire con il mitra in mano dentro il palazzo presidenziale assediato e bombardato. Allende non era un ‘guerrillero’ rivoluzionario come El Che. Era un presidente socialista democraticamente eletto e deposto con un golpe militare. Mi ricordò la morte del Che in Bolivia. E ancora oggi le due cose mi sembrano legate dallo stesso filo. Quello dell’etica della sconfitta. Solo che le sconfitte, anche se gloriose, cominciano a pesare sulle spalle, come gli anni. “Hasta siempre comandante” si può ancora dire. Hasta la victoria, lasciamo perdere..
Marco Lorenzoni
che guevara
Se dopo 50 anni il suo pensiero politico è attuale direi che Guevara ha vinto. Peccato non abbia avuto la possibilità di scoprirlo perché ucciso da qualcuno che il Che voleva liberare. Tanto di cappello giovane ed immortale Ernesto
Il più bel pezzo sul Che degli.ultimi 50 anni
mi devo commuovere?
Non ricordo chi anni fa disse Hasta la Victoria. ..Forse! Mi sa che ci aveva visto lungo.
Il mito della sconfitta? Dipende da come si vede e si sente la storia.Se in tanti luoghi del mondo ci sono stati dei rivoluzionari morti anche sul campo , la lezione che ne esce e’quella che la rivoluzione appunto come diceva Mao”non è’ un invito a cena “ma la conquista di traguardi l’uno legato all’altro”che spesso scontano anche ritorni indietro e controrivoluzioni,ma insegnano che lottare non è’ inutile.Mi sembra di odorare quasi una interpretazione nichilista che esca dalle tue considerazioni,forse sostenuta e rinverdita dalla situazione odierna di dominio mondiale che il capitalismo ha sul mondo.Ma credo che converrai che se oggi in certe zone del mondo la gente si trova meglio di un secolo o due fa e mangia anche due volte al giorno,questo non lo debba davvero al sistema che evoca la tecnologia che usa eliminando il lavoro bensì’ alla lotta di gente come il “Che” . Se poi anche la storiografia abbia contribuito a dargli una luce romantica dell’eroe che diceva che “il rivoluzionario doveva essere anche duro ed inflessibile senza perdere la tenerezza” queste sono state componenti che sono state assunte mediaticamente per il multiuso che si è’ fatto del personaggio.Indubbiamente secondo me il “che” oggi vive in ogni persona sfruttata e che trova la forza di redimersi e cambiare la propria condizione e che altresì’ combatte con coscenza anche della possibilità’ reale della propria sconfitta.In questo caso io non ci trovo un etica perdente bensì’ il suo contrario.Sarebbe come invalidare la propria lotta e colorare di inutilità’ le speranze di poter cambiare.E’paradossale come ha detto Charlie che il Che abbia lottato anche per sollevare dalle miseria e dall’indegnità anche coloro-come classe sociale-che gli hanno dato l’ultimo colpo di grazia uccidendolo.E’anche per questo che il suo sacrificio e la sua immagine sul letto dell’obitorio si possono paragonare a quel quadro del Mantegna e trovo che non ci stoni affatto il paragone,ma è’ una visione la mia tutta personale beninteso.Mi verrebbe da rispondere che trovo giusto lottare in quelle occasioni come ha fatto il Che è non un inutile spreco di forze perche’40 anni dopo il sistema sia sia rimangiato tutto.C’e’ un detto che dice”chi lotta può’ perdere,chi non lotta ha gia’perso”.Quindi il pensiero romantico e nichilista che oggi inviterebbe quasi a desistere “tanto il mondo non si cambia” , perché la risultante poi questa è’ se seguiamo tale pensiero, si contrappone nettamente a quella che ha animato il Che durante tutta la sua vita.Il progresso dell umanità’ esiste perche’soprattutto ci sono stati gli uomini come lui che hanno fornito un messaggio che ormai è’ inestinguibile, e la storia odierna -ed è’ lapalissiano questo-e’oggi come la vediamo poiche’ e’ la conseguenza di cio’che è’ stato ieri.Quindi se su questo non c’è’ dubbio,lode al Che.A proposito di Korda e delle sue foto del Che e di Cuba,volevo dire che le conosco molto bene poiché il mio archivio possiede anche degli originali stampati con tanto di timbro validantedante anche di Salas. Sia Korda sia Salas hanno collaborato a fornirci lo spaccato della società cubana prima,durane e dop Batista.
Anche lo storico Galli Della Loggia, in una trasmissione RAI sulla storia e dedicata al Che, ha fatto presente l’elemento estetico di Che Guevara, da non sottovalutare nel processo di creazione del mito. E anche lui ha citato la diciamo scarsa avvenenza di Lenin, che, a pari merito, mai raggiunse la popolarità mitica e mediatica del Che. Fa riflettere anche che, in barba ai 30 e passa anni di una vita da “rivoluzionario” , la storia del Che è principalmente quella della sua morte, quelle ultime 24 ore in cui si maturò, e si attuò, la decisione di ucciderlo
X Elda.Sono d’accordo che anche l’elemento estetico di che Guevara abbia influito sulla mitizzazione ma una riflessione andrebbe fatta anche un po’ più larga credo e riguarda la contestualità temporale in cui si è svolta la vicenda del Che e che è stata molto diversa e non paragonabile a quella di un Lenin, proprio innanzitutto per contestualità temporale e risultati raggiunti della loro attività.Non credo che l’accostamento di questi due personaggi possa essere paragonabile, soprattutto in quanto il mondo che ha trovato Ernesto che Guevara nei luoghi dove ha svolto la sua vita da rivoluzionario era stato cambiato ormai da decenni dall’influsso della Rivoluzione Sovietica. Occorre pensare che prima della rivoluzione francese l’anello della catena che legava il proletariato mondiale,quando era stato spezzato si era sempre risaldato,facendo continuare il mondo a muoversi come era stato secoli prima. Con la Rivoluzione Sovietica il sistema soprattutto economico-imperialistico dell’Occidente fu messo in seria discussione e con questa la sua esistenza e continuazione. La seconda guerra mondiale non fu capace di annientare l’URSS ed il timore dell’estensione della rivoluzione mondiale assunse un carattere permanente dentro l’Occidente una volta sconfitto il Nazifascismo.Quindi i due aspetti credo che non debbano essere letti paralleli e come conseguenza misurato l’influsso sulla storia mondiale di un Lenin o di quello di Che Guevara.Che poi la lotta del Che si sia rivelata anche per certi versi anche contro il sistema comunista sul come si era evoluto e sviluppato è un altro paio di maniche,- e qui se vogliamo possiamo ritrovare il sogno e l’utopia rivoluzionaria di Ernesto Che Guevara- ma la storia del ‘900 è stata influenzata con un peso senza uguali da un personaggio come è stato Lenin,dalla sua attività politica e visione dello sviluppo dei fatti storici che successivamente ha fatto scaturire la terza internazionale e si è avuto successivamente il legame che ha permesso la liberazione di interi continenti dal giogo coloniale.L’attività del Che si è innestata in maniera forte e marcatamente internazionalista in una situazione dove già erano sorte le presmesse per la liberazione di quei popoli per cui il Che ha lottato ed è morto.Le ultime 5 righe del tuo intervento Elda credo che contengano un paragone in tutti i casi ”ristretto” nei quali si parla di ” avvenenza”,ma la storia e la modificazione dei fatti non si forma perchè una persona sia più avvenente o meno di un altra e per quanto riguarda la morte,si deve sapere che al Che davano la caccia strutture portanti di Stati coadiuvati ed indirizzati dalla supervisione degli Stati Uniti d’America ,ai quali la frittata nel paniere rischiava in ogni momento di manifestarsi stato dopo stato.Era un impero che sarebbe crollato, un impero dal quale lo zio Sam succhiava la linfa vitale, come aveva fatto col Messico, col centro america, e con l’America Latina.E come fà tutt’oggi in quella parte del mondo dove non c’è più nessuno che gli si opponga tranne gli stati che loro considerano come ”Stati Canaglia” poichè hanno trovato una strada anche se si vuole rozza e primordiale per riprendersi le proprie risorse delapidate da almeno due-tre secoli, vedi Venezuela.La loro strenua lotta per buttare giù i governi eletti dal popolo per sostituirli con quelli dei loro vassalli o servi non cessa mai e spesso ottiene anche dei frutti come l’isolamento da parte dei mercati,il disordine interno e la sobillazione controrivoluzionaria costante.Così hanno fatto ai loro tempi per il Messico, quasi tutta l’america centrale incluso Nicaragua, Salvador,Panama per poi passare a quelli dell’America del Sud: Cile, Bolivia, Argentina.Anche al tempo del Che la considerazione che si erano creati gli Stati Uniti nel centro e nel sud america era tale che si diceva che gli ”USA non avevano amici.Gli USA od avevano nemici oppure servi”. Ancora oggi nulla in sostanza è cambiato, tranne pochi fuochi che appena divampano ci si attiva subito perchè vengano spenti, anche con l’aito politico dei paesi come il nostro che è apertamente schierato con loro sulla questione Venezuela.Quando le multinazionali del petrolio lo delapidavano allora andava bene tutto ed intorno a tutto questo c’era il più assoluto assordante silenzio,quando sono state buttate fuori da Chavez il Venezuela è diventato uno degli stati canaglia ed uno stato dittatoriale.Ma dell’Arabia Saudita e del Qatar nessuno dice mai nulla nel nostro democratico paese e sui legami col terrorirsmo usato da questi paesi dove c’è così alta attenzione alle condizioni della donna, delle libertà individuali e collettive? L’anno scorso gli USa hanno venduto all’arabia saudita 100 miliardi di dollari di armi.Domandatevi per fare cosa e se non per reprimere in maniera moderna e soprattutto tecnologica quelle stesse ragioni delle compressioni delle libertà contro cui aveva lottato Che Guevara. Il problema è cara Elda che le nuove generazioni stanno più attente alle magliette ed all’esteriorità avvenente dei personaggi che alla sostanza ed agli esempi delle loro vite.Ma è una strada quella che li fotte.Ed i risultati si vedono se i maestri che fanno opinione sono quelli presi ad esempio come i vari Galli della Loggia.
Non credo che Elda si riferisse, parlando di “elemento estetico” solo all’avvenenza del Che. Anche io credo che l’elemento estetico (l’ho scritto) abbia pesato e parecchio nella costruzione del mito del Che, intendendo per estetico l’immagine, l’impatto mediatico del personaggio, certo un impatto dovuto anche al particolare momento (c’è scritto anche questo nell’articolo), con l’esplosione della pop art, della tv, del rock… che al tempo di Lenin e di Gramsci non c’erano. Ma anche la morte con quelle modalità fa parte dell’elemento estetico… Tutti, anche i i più giovani conoscono la faccia del Che attraverso quell’immagine stilizzata stampata sulle magliette, pochissimi, credo, al di sotto dei 60 anni, hanno mai ascoltato un discorso o hanno consapevolezza delle reali posizioni politiche del Che… Qui sta l’elemento estetico. A cui ho aggiunto il mito della sconfitta che è nel dna di una certa sinistra (la migliore)…
La prima cosa che mi viene in mente volendo risponderti è quella di quando io e te discutiamo sulla funzione dei media e soprattutto quando cerco di far passare l’idea che i media servano a formare l’opinione, l’idea, e quindi anche la collocazione nella scala valoriale, anche il ricordo e certamente la grandezza,allora in tal caso indubbiamente chi non riconoscerebbe che l’impatto mediatico delle immagini non contribuisca a far formare le idee? Tu non l’hai mai negato ma per quanto mi riguarda io credo che oggi tale fatto abbia anche una funzione più grande di ciò che in realtà rivesta la mera apparenza delle immagini e questo più grande fattore è l’uso che se ne fà ed il fine.E’ diventato un mezzo,soprattutto incline alla confusione ed allo spargimento di fumo,e questo per una somma di motivi, non secondario quello dell’ignoranza da parte della moltitudine di osservatori ( dove ignoranza stà per ignorare,non conoscere, basarsi solo sul contenuto e sull’emotività della pulsione estetica).La stessa cosa ingrandita ai massimi effetti succede con il discorso del paragone su Lenin, poichè credo di capire quale sia il discorso che se ne debba far uscire e che la gente sia portata così a condividere.Non sono senz’altro saccente o che possa passare per tale,ma in economia c’è una teoria che si chiama nella modellistica Post-Keynesiana con un nome: ”Modello di Harrod-Domar, che dice e dimostra che uno stesso fatto economico che avvenga in contesti economici diversi prende ed assuma da questi un significato dipendente a seconda della natura del sistema dove il fatto avvenga.Se ci si pensa bene questa è una enunciazione di una importanza capitale,che in certi momenti appare anche ovvia, ma che se avvenuta nel contesto ed all’interno di un certo sistema,prenda da questo il colore,le finalità ed il valore di quel sistema dove si trova ad esistere.Un po’ complicata forse come teoria ma oggi è una delle maggiori seguite,anche in epoca di globalizzazione dei mercati mondiali. Sul fatto del mito della sconfitta e del DNA della sinistra,credo che abbiamo idee diverse, ma parlarne qui e con il carattere che mi ritrovo,rischio di dare alla stampa un libro….ed allora ne faccio volentieri a meno,per il sollievo dei lettori….