8 marzo, il giorno senza donne. Un pensiero fuggente
Correvano i primi anni ’80. Per chi, come noi piccoli progetti di donne, aveva il senso della giustizia sociale, delle pari opportunità che allora si chiamavano parità di diritti, della libertà come impegno e partecipazione, della solidarietà femminile che non conosce invidie o gelosie; per noi che avevamo l’anima gonfia di speranze e certezze che avremmo perso nel mezzo del cammino, ma allora non lo sapevamo, allora credevamo nella nostra forza di donne che percorrevano la stessa strada; per noi, quelle lì, dicevo, l’8 marzo non era un giorno di festa ma un giorno politico. Il giorno della Manifestazione con la emme maiuscola.
Andavamo in piccoli gruppi per unirci ad altri piccoli gruppi di donne che non conoscevamo ma che diventavano compagne di marcia in un istante. La marcia era il luogo del ritrovo della complicità, di storie diverse ma comuni a tutte noi che in quel luogo, quel giorno eravamo semplicemente donne. In quei primi anni ’80 (come prima ma già meno di prima) alla manifestazione si andava e basta. Senza se e senza ma, si direbbe oggi.
Con gli anni, quell’8 marzo politico si è spento. Negli anni, noi donne non più progetti ma soggetti, abbiamo lasciato che l’8 marzo diventasse un giorno di festa e mimose, in cui l’unico impegno è quello di uscire con le amiche senza maschi tra le scatole. Con quell’8 marzo politico si sono spente, assumendo valore dispregiativo, parole come Femminismo, Politica, Libertà, Bene Comune, ultimi baluardi di un’epoca storica di scontri e confronti socio-politici, che oramai si trascinava stancamente.
È per questo che oggi che le donne hanno proclamato lo sciopero dell’8 marzo “Un giorno senza donne”, noi, quelle di un passato lontano ma non troppo, a cavallo tra la carica esplosiva degli anni ’70 e il declino degli anni ’90, abbiamo capito che non tutto è perduto, che l’8 marzo può essere, ancora una volta, un atto politico.
Lo avevamo subodorato il 21 gennaio, giorno della Womens March on Washington, di fronte all’onda anomala che ha unito migliaia di donne oltre i confini spazio-temporali di questo globo sconquassato.
Un segnale importante che non poteva essere ignorato in un mondo che sta pericolosamente andando verso la disgregazione, il separatismo, l’individualismo, il nazionalismo, lo scissionismo (ogni riferimento a fatti o persone del Pd/Dp è puramente casuale). Un segnale che poteva avere un’unica lettura: la fiamma che accende una nuova speranza.
Ecco, alla luce di questa fiamma, io le donne che non capiscono non le capisco. Non afferro lo scetticismo misto a fastidio di quelle che non condividono questo sciopero, che parlano di inutilità, lamentando il disagio causato. Ma non è proprio questo il senso?
Lo scopo dello sciopero, che peraltro mai si dissocia dalla contingenza del disagio, era proprio di dimostrare, all’atto pratico, i danni che l’assenza delle donne dal mondo “operativo”, anche solo per un giorno, può causare. E non è forse “utile” ricordare a questo pianeta che non solo esistiamo ma anche che siamo capaci, noi sì, di marciare insieme, dagli Appennini alle Ande, per dire no alla disgregazione, al separatismo,all’individualismo,al nazionalismo, all’ingiustizia sociale?
Sentirsi vittima e non complice del disagio causato significa fare il gioco di chi negli anni ha sistematicamente e deliberatamente demonizzato i concetti (e la storia) di Femminismo, Politica, Bene Comune, Libertà, Giustizia, Democrazia, spacciandoli per grottesche etichette con la forza di un linguaggio distorto, un sapere deformato, un controllo impercettibile. Una forza che non è numerica ma di potere, contro l’innovazione, il ribaltamento dell’ordine costituito, il futuro.
Lo sciopero di oggi è un atto politico, per la prima volta dopo anni. L’8 marzo ha ritrovato il suo senso e forse la sua strada
Ritratto: Aurora Stano
Grafica: Lorenzo Poggioli
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