MINIGONNE A SCUOLA. OCCHI CHE CADONO E RIFLESSIONI A LATERE

venerdì 09th, ottobre 2020 / 16:32
MINIGONNE A SCUOLA. OCCHI CHE CADONO E RIFLESSIONI A LATERE
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In redazione si commenta la storia della caduta dell’occhio dei “prof” nel Liceo Socrate di Roma. Dalla memoria elefantiaca del Direttore emerge la figura di Julia, figlia di Ottaviano Augusto (39 a.c.), anche lei di Roma, come il Liceo. La Storia, o meglio gli storici del tempo, la dipingono come molto bella, trasgressiva, spudorata, e pure libertina. Pare, racconta la Storia, che avesse una carica erotica assai vivace.

Credendo che a causa della propria privilegiata condizione, ogni licenza le fosse permessa, incurante dell’onore della famiglia, non tralasciò nulla di quanto più turpe possa compiere una donna, dando libero sfogo alla sua lussuria”scrive di lei lo storico Velleio Patercolo (Storia Romana II,100). Insomma, una poco di buono, che ve lo dico a fare. Che fosse anche una donna molto colta, educata da maestri illustri quali Orazio e Virgilio, traspare e conta poco.

Molto meno turpe, ça va sans dire, l’inclinazione del padre Ottaviano ad approfittare della eccezionale bellezza della figlia per consolidare il potere attraverso un’accurata politica matrimoniale. Julia fu promessa in sposa al figlio di Marco Antonio a soli due anni, anche se il matrimonio non andò in porto. Successivamente andò in sposa ad altri tizi che il papà ritenne adatti e convenienti. Nessuno scandalo dunque. Usare le donne come merce di scambio, in questo caso per matrimoni di interesse, era una pratica tanto in uso allora quanto lo è oggi in alcune parti del mondo. Peraltro, l’indomabile Julia fu esiliata dallo stesso Ottaviano Augusto a Ventotene (come gli antifascisti) a causa di un complotto contro di lui cui la figlia avrebbe partecipato. O forse perchè la sua lussuria risultò, affinale, fuori controllo.

Ritratto di Julia, Altes Museo, Berlino

Chissà, più che frivola e lussuriosa, forse una Storia meno sessista avrebbe definito la bella Julia una donna libera e disinvolta. Ma la Storia è stata scritta in prevalenza da uomini. “C’è una storia antica quanto il mondo umano”, scrive Paolo Ercolani, autore del libro Contro le Donne. Storia e critica del più antico pregiudizio, “questa storia riguarda il pregiudizio contro le donne.  […] il più antico, radicato e diffuso pregiudizio che la vicenda umana è stata in grado di produrre”.

Fatto sta, si commenta in redazione, che la libertà e la disinvoltura delle donne spaventano ancora oggi. E si definiscono con altri, meno nobili termini. Anche all’interno dello stesso mondo femminile.

Vero. Tuttavia, se la frase della Vice Preside dell’Istituto romano,  rimbalzata a slavina dalla stampa di massa, può risultare infelice in un contesto di libertà della donna e di illecita caduta dell’occhio, ammesso che cada, è anche vero – ma c’è chi dice no- che tocca le corde di più ampi contesti, tra cui l’abbigliamento nelle scuole, dibattito annoso, assai discusso ( leggi pure polemizzato) e mai giunto a conclusione per mancanza di linee guida e timore, forse, dell’accusa di moralismo.

E come sempre accade in Italia, ogni scuola ha finito per decidere da sola. Tra l’indignazione di genitori e studenti, e lo zelo sensazionalistico di certa stampa, sono molti gli istituti che nel corso degli anni hanno imposto un codice di abbigliamento definito consono al contesto, valido per entrambi i sessi.

Riassumendo, i diversi provvedimenti chiedono di non indossare jeans e magliette strappati, shorts, infradito, canottiere a rete, mutande e pance a vista. A Francavilla Fontana, scatenando l’ira dei genitori, la preside dell’istituto comprensivo 3, elementari e medie, quest’anno ha raggiunto l’apice dell’impopolarità introducendo la divisa: camicia e gonna blu per le femmine, pantalone, camicia e cravatta per i maschi.

Un’infamità per noi italiani che leggiamo gli interventi delle autorità sempre in chiave di coercizione, passandoci il tempo e la fantasia a contrastarli. Dalle mascherine antiCovid alla libertà di vestirci come ci pare.

Comunque. A conti fatti le posizioni sono due. Da una parte chi professa che l’abbigliamento è una forma di espressione individuale e non va repressa da censure di natura moralistica; dall’altra chi dice che la morale non ci azzecca un bel niente, ogni contesto richiede un abbigliamento ad esso consono. Insomma, le scuole non sono passerelle di moda.

Se è innegabile il diritto dei giovani a indossare modelli di abbigliamento diffusamente proposti dalla moda corrente e ormai naturalmente accettati, è altrettanto innegabile che le stesse famiglie, tranne rare eccezioni, si aspettano che nella scuola la naturale esuberanza dei giovani sia contenuta a livelli compatibili con un ambiente ove si esercita istituzionalmente una funzione educativo-didattica».

Così parlò Mattarella in qualità di ministro dell’istruzione nel 1989, quando la parlamentare radicale Ilona Staller si oppose al divieto della preside di un liceo di Vigevano di indossare le minigonne.

Trentuno anni dopo siamo ancora qui a parlarne.

Mi vengono in mente gli anglosassoni che, seppure non godono di ottima fama in questo periodo, il problema dell’abbigliamento scolastico lo hanno risolto due secoli fa.  Nella maggior parte delle scuole si va in divisa fino ai 16 anni. Le più severe non ammettono smalto o trucco vistoso per le fanciulle, capello punk, piercing o barba incolta per i fanciulli. È molto diffusa la divisione in istituti maschili e femminili, sempre fino ai 16 anni, per evitare distrazioni in un luogo in cui si va per studiare. E punto, fine della questione.

Drastico, si dirà. Può darsi. Raffaele Mantegazza, pedagogista presso l’università Milano Bicocca, bandisce infatti le divise, bollate come anacronistiche. Ma i vestiti, afferma, devono essere consoni al contesto.

Una cosa è certa. Non si arriverà mai ad una conclusione. Fra trentuno anni, surriscaldamento del pianeta e virus permettendo, saremo ancora qui a discutere se sia moralistico o meno introdurre un’etichetta dell’abbigliamento nelle scuole. E a lamentarci del fatto che gli altri paesi europei sono “più avanti”.

Elda Cannarsa

 

 

 

 

 

 

 

 

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