STORIE: AMIATA 1959, L’OCCUPAZIONE DELLE MINIERE. 20 GIORNI SOTTO TERRA PER IL LAVORO
Lo scenario che fa da sfondo alla vicenda è conosciuto: il mercurio non godeva più della stessa fama e dello stesso prezzo del periodo di guerra. Nelle miniere private, i padroni avevano già richiesto licenziamenti: i minatori avevano risposto con scioperi e occupazioni. Come nel paese vicino, Piancastagnaio. Il clima nazionale segnato dalle impennate del centro-destra ormai agli sgoccioli: è la viglia del terribile sussulto del governo Tambroni e del sangue nelle piazze italiane.
Ad Abbadia i primi segnali della volontà di far pagare ai minatori la crisi del mercato si registrano in aprile quando i lavoratori si riuniscono in una grande assemblea cittadina, chiedendo la revisione del sistema di cottimo e un uso diverso delle risorse pubbliche. C’è aria di licenziamenti. Attaccare prima d’esser attaccati. Ma la direzione della miniera scrive al prefetto per allarmare sull’ordine pubblico: “Una manifestazione preannunciata come sciopero – scrive- è trascesa in un comizio pubblico sui piazzali della Miniera, occupati contro le intimazioni delle nostre guardie giurate e della forza pubblica, con la partecipazione anche di individui estranei al nostro personale”.
I minatori, e le loro famiglie, visti come una minaccia. Il clima si fa ancor più pesante. La direzione delle miniere, infatti, prende di mira alcuni del minatori ritenuti sobillatori e minaccia licenziamenti. Il 21 aprile i minatori rispondono con uno sciopero. A nulla porta l’incontro che si tiene il giorno dopo al Ministero. Siamo al muro contro muro. E così è indetto, il 23 di aprile, un nuovo sciopero per criticare la politica del governo e le azioni repressive. I minatori e i cittadini di Abbadia contestano le posizioni dei vertici aziendali, contestando proprio le cifre portate dall’azienda sui costi di produzione del metallo e sulla redditività della miniera. Gli spazi per una trattativa, nonostante il levarsi di voci per evitare lo scontro frontale, si riducono di giorno in giorno. Il paese è in grande fibrillazione con la giunta comunale riunita in seduta permanente. Si arriva, così, a una decisione che appare inevitabile: occupare le miniere. E’ il 15 maggio. I minatori abbracciano i familiari e con un’organizzazione perfetta occupano i diversi livelli delle gallerie.
E’ una vita particolare quella che il paese e la miniera vivono. I commercianti raccolgono viveri, nelle scuole i bambini svolgono i temi sulle miniere, come quelli della prima elementare della scuola Leonardo Da Vinci. I bambini scrivono: “ogni nostro pensiero si sofferma nelle buie gallerie vicino ai vostri cuori forti, vicino a voi che lottate per conservare a noi e a tutto il paese benessere, prosperità e lavoro. Serva almeno questa lettera a infondere nei vostri animi maggior forza, grande coraggio per sostenere con rassegnata serenità questo difficile momento”.
Il sindacato organizza la mobilitazione che man mano a raggio si allarga toccando prima la provincia e poi l’Italia intera. I minatori scrivono lettere ai propri cari, ai giornali, al governo. A loro arrivano quelle dei minatori delle altre miniere, dei dirigenti nazionali della CGIL e per il Pci le combattive parole di Giancarlo Pajetta. Le sezioni spediscono libri e giornali ai minatori che ne fanno richiesta per leggerli alla flebile luce delle acetilene. Con una lettera ringraziano i giornalisti comunisti per i 350 chili di pasta inviati loro per solidarietà.
D’altra parte è proprio l’Unità il giornale che segue più da vicino la vicenda. Così Ignazio Salemi racconta sul giornale una giornata dell’occupazione: “Tutti, in una forma o nell’altra, sono accanto ai 225 sepolti vivi. Abbiamo visto recarsi alla miniera, accompagnato dal suo cane fedele, il primo giorno dell’occupazione, un grande invalido del lavoro, un ex minatore, Aleandro Terenzi, un uomo alto e ancora forte, che ha perso la vista in un incidente in una galleria delle miniere del Belgio, dove spesso, quando restano senza lavoro quassù, molti di questi minatori vanno a finire”.
Tra una lettera e l’altra trovano anche il mondo di scrivere il testo di una canzone, La Miniera Occupata, un inno di lotta che probabilmente cantavano sull’aria di un canto della resistenza, Siamo i ribelli della Montagna: “Monte Amiata che vai cercando, / monte Amiata che vai cercando / tu vai cercando la confusion; / ma non la trovi fra i minator. / Tutti uniti noi lotteremo / tutti uniti noi lotteremo / e batteremo le posizion / d’intransigenza di voi padron. / Se voi padroni non cederete, / se voi padroni non cederete / i minatori restano qua / finchè il governo non cederà. / Minatore che dai la vita / minatore che dai la vita / con il sudore del tuo lavor / per la ricchezza delle nazion. / Qui sotto terra noi lotteremo, / qui sotto terra noi lotteremo / sempre più forti diventerem / e tutti uniti noi vincerem. / La vittoria sarà sicura / la vittoria sarà sicura / i minatori compatti saran / e i sindacati ci guideran.”.
Purtroppo non vinceranno. Anzi si aprirà un periodo difficile sia per i minatori sia per l’intero paese. Come una doccia gelata arriva, il 6 giugno, un perentorio comunicato della Società Monte Amiata: i minatori sono invitati a sospendere l’occupazione e con il trucco delle “dimissioni volontarie” si avviano, di fatto, i licenziamenti.
Un profondo malessere serpeggia in paese. Le liti squassano le famiglie. Si apre la guerriglia verbale tra chi è licenziato e chi resta a lavoro. Le lacerazioni spaccarono gli stessi sindacati. Del difficile clima ne fa fede una cronaca degli eventi di quei mesi redatta dai monaci dell’Abbazia di San Salvatore. Il 31 di luglio scrivono: “La tensione in paese sta prendendo aspetti tragici, in quanto, dopo lo sganciamento dalla Società Monte Amiata di oltre 300 operai, che volontariamente si sono dimessi dal lavoro, con compenso premio di £ 600.000, si preannunzia il vero e proprio licenziamento”.
A cinquant’anni dall’occupazione, un convegno poi ripreso da un volume di Giuseppe Sani,ricco di documenti, cercò di rileggere l’importante avvenimento. Fazio Fabbrini, che al tempo lavorava nel settore economico della direzione del Pci e che poi sarà senatore e sindaco di Siena, offrì un’analisi disincantata: “In estrema sintesi posso ora dire che quelle mie ricerche e i giudizi che raccolsi portarono tutti alla stessa conclusione e, cioè, purtroppo, che quella drammatica lotta era oggettivamente senza speranza perché il settore mercurifero attraversava una crisi profonda e senza sbocco fino a che non fossero intervenuti fatti nuovi che ne rianimassero il mercato mondiale. Quella lotta rivestiva comunque un grande significato economico-sociale perché, anche se non avesse potuto ottenere il ritiro dei licenziamenti, avrebbe potuto ridurne il numero e avrebbe posto e con molta forza l’esigenza di investimenti in altri settori in grado di combattere la disoccupazione”.
Come si sa, gran parte dei licenziati erano quasi tutti militanti della sinistra e iscritti alla CGIL e alcuni erano stati partigiani che avevano contribuito alla salvezza degli impianti produttivi che i tedeschi avrebbero voluto distruggere al momento della loro ritirata: una sfacciata e vergognosa discriminazione.
Iniziava, proprio con quei licenziamenti, il ventennio che avrebbe portato allo smantellamento dell’intero settore minerario italiano. Negli anni Ottanta arriveranno le lotte dei minatori inglesi, Anche quelle eroiche; anche quelle, indispensabili. Ci sono delle lotte che vanno fatte. Comunque vadano a finire.
Nella foto (archivio di Giuseppe Sani) le donne amiatine, mogli, sorelle, fidanzate dei minatori leggono i giornali (L’Unità e Noi Donne) che parlano dell’occupazione.