QUEL VIAGGIO CON IL MAESTRO. RICORDO DI MARIO BERTONCINI, MUSICISTA ECCELSO E NON SOLO.
Il 19 gennaio 2019 è morto un artista, un musicista, un compositore, un docente. Un amico. Mario Bertoncini è stato tutte queste cose. Per me prima di tutto un amico e di questo gliene sarò grato a vita. E’ stato probabilmente la persona dalla quale ho potuto maggiormente attingere in termini culturali e colui che più mi ha insegnato la semplicità della bellezza.
Lo sgomento per la sua morte lo provo soltanto adesso, quasi un mese dopo, perché con Mario non ci siamo più visti negli ultimi anni. Io me ne sono andato dalla Valdichiana e i ritmi della vita non mi hanno più permesso di passare i pomeriggi in musica insieme a lui. E’ stato una persona speciale per me. Ha attraversato un periodo della mia vita come un uragano donandomi tanto e come un uragano si è spento lasciandomi solo i ricordi. Meravigliosi e indelebili ricordi.
Arrivò in toscana non so come da Berlino, dove aveva passato gli ultimi suoi trent’anni insegnando musica a fortunati esseri umani tedeschi e prima ancora in Canada. Ma questo gli serviva evidentemente per vivere perché lui era vocato a ben altro. Il suo livello culturale era imbarazzante per la stragrande maggioranza dei suoi simili, me compreso ovviamente, e si dilettava nella costruzione di strumenti a corda che suonavano con il vento. Arpe Eoliche le chiamava lui e aveva ragione. Una di queste diavolerie era installata permanentemente in qualche piazza della Berlino dimenticata perché forse nemmeno la Germania post comunista, culla della nuova cultura “contro” europea, riusciva a comprendere il genio di questo piccolo signore vestito di nero dalla bella barba bianca. Mi disse che poi fu vandalizzata ma forse ricordo male. E’ stato forse il massimo interprete di Scarlatti e adorava Chopin.
Piombò nel mio ufficio di inadeguato Assessore alle Politiche Culturali del Comune di Chiusi all’inizio del 2005. Ero in carica da un mese o giù di lì e cercavo disperatamente di dare un senso a quella strana avventura. Fui incaricato dal Partito a cui appartenevo anima, corpo e testa e che faceva parte dell’allora coalizione che governava Chiusi. Avevo 29 anni, una passione smisurata per la politica e tanta paura. Anche perché ricoprire la carica di Assessore alla Cultura senza titoli accademici crea dei dubbi. Oggi è la norma. Anzi, un vanto.
Si presentò insieme ad una signora che mi raccontava di lui che le era a fianco, in silenzio.
Ascoltavo come ascoltavo tante persone in quel periodo ma lui era speciale. Era fuori posto, quasi a disagio e come se cercasse di rinchiudere le sue capacità dentro il piccolo contenitore rappresentato dalla provincia profonda dove ancora devo capire perché ci fosse finito. Voleva fare un’ installazione delle sue Arpe Eoliche all’interno del Festival Orizzonti, evento nato da un paio di anni e che negli anni successivi si sarebbe mostrato a livello nazionale.
Rimasi profondamente affascinato dal progetto ma forse troppo arduo per la realtà chiusina. Mi misi comunque al lavoro insieme all’allora Istituzione Teatro Mascagni (la Fondazione era la dal nascere) per ricavargli uno spazio ma nel frattempo tra me e il Maestro nacque un rapporto. Di stima infinita nei suoi confronti da parte mia e di non so cosa da parte sua, probabilmente simpatia per quel giovane sinistroide capellone con i piercing, con pochi mezzi ma con tanta volontà.
Un giorno di maggio dello stesso anno, mentre attendevo di capire se la direzione artistica del Festival dell’epoca riteneva di poter realizzare qualcosa insieme a Mario, ricevetti una sua telefonata in cui mi chiedeva se mi sarei potuto assentare da Chiusi per una settimana per accompagnarlo a Berlino per recuperare i suoi strumenti eolici parcheggiati in un magazzino della zona est e portarli in toscana. A Le Piazze per la precisione, dove ha abitato fino alla morte. Si trattava di affittare un furgone, andare a Berlino, organizzare il carico e ripartire. Una settimana in tutto. Partimmo un giorno di fine maggio. Guidai io fino a Berlino con una sosta per dormire subito dopo il confine con l’Austria, nella regione di Inntal.
Arrivammo a Berlino dopo 1.500 km. Guidai sempre io perché i 72 anni del Maestro erano comunque abbastanza. Parlammo molto in quelle ore di viaggio. Parlammo di tutto: politica soprattutto. Mi chiamava “Il Compagno Impenitente”. Ma non mancarono anche tanti argomenti futili a cominciare dal gentil sesso. Mario era una persona consapevole della sua sterminata cultura ma sapeva mettere a perfetto agio il suo interlocutore anche utilizzando termini che apparivano chiaramente fuori luogo pronunciati da lui o affrontando temi “terreni”, a volte apparendo anche grottesco in quell’italiano perfetto di emigrato, romano senza accento ma che declamava i sonetti di Gioacchino Belli in un romanesco aggraziato ma sincero. Degli oltre quattrocento sonetti che ha scritto lui di suo pugno, in omaggio al Belli, molti di questi li declamò in viaggio. Alcuni di questi furono pubblicati ed una copia di questi è nella mia libreria.
All’arrivo in città venimmo fermati da un posto di blocco della polizia. Un uomo in divisa verde mi parlava in una lingua astiosa dal finestrino del furgone. Voleva i documenti. Poi mi rivolse ancora una frase in quella lingua da Istituto Luce. Mario tradusse dicendomi che voleva dare un’occhiata al carico. L’uomo in verde sparì dietro al furgone e ritornò un attimo dopo rivolgendosi direttamente a Mario: c’era un problema dietro. Scesi perplesso visto che il furgone era vuoto ma una volta dietro mi resi conto che il problema non era il mancato carico ma le due portiere posteriori completamente nere di olio. Il motore era fritto. Chiamai il soccorso internazionale e in breve tempo vennero, caricarono il furgone e ci portarono tutti al primo centro Ford dove la diagnosi fu triste per il motore e per noi che avremmo dovuto usare quel furgone. Lo avrebbero trattenuto quattro giorni e ci dettero una Ford Ka in sostituzione temporanea. Poco male. Ci eravamo concessi comunque una settimana.
Alloggiammo in quella che, se non ricordo male, era la casa del fidanzato della figlia di Mario, in Oranienstrasse mi pare, zona Kreuzberg. I due fidanzati erano fuori Berlino in quei giorni. Una bella casa. Aveva una camera da letto matrimoniale, una cucina con zona pranzo, un bagno e un salotto con un divano letto dove dormivo io. Non ricordo il mestiere del padrone di casa ma nel salotto dove passavo le notti il muro delle pareti era completamente coperto da scaffali in legno da terra a soffitto, lasciando bianco di intonaco il solo soffitto a cui era attaccato un lampadario. Adagiati sulle mensole degli scaffali c’erano testi di filosofia e dischi di musica classica e Opera. Quattro pareti di questo. Lasciai perdere la filosofia ma in quei giorni ascoltai gran bei dischi, soprattutto Puccini e Stockhausen.
Le ore di sole (parecchie a quelle latitudini in certi periodi) le passavamo separati: Mario presso il magazzino post-sovietico con delle persone che lo aiutavano a fare un inventario di tutta quella gran roba da portare via – alcuna, la più importante, altrimenti sarebbe servito un bilico – e io in giro per Berlino a fare il turista con macchina fotografica e guida cartacea. Alla sera poi ci si trovava sempre da qualche parte, spesso davanti a qualche ristorante etnico per cenare insieme. Feci conoscenza con il Wasabi in quei giorni ma non avevo ben chiaro come andasse mangiato. Sicuramente non come feci io. Corsa al bagno e Mario fuori dalla porta per verificare che non mi prendesse uno shock anafilattico.
Un pomeriggio ricevetti una chiamata da lui. Telefonata che ho impresso in testa e che cito testualmente:
Mario ciao ! –
- Ciao compagno, dove sei ? –
Non ricordo dove mi trovassi in quel momento…
- Ah ok… senti, non so come abbiano fatto a saperlo ma certe persone che frequentavo a Berlino hanno saputo che mi trovo qui e ci avrebbero invitato a una di quelle serate pallosissime per pochi eletti dove si fanno discorsi noiosi e si ascolta musica peggio .. . Ah…ok. D’accordo. Che significa ? Vuoi andare ? Certo! Ma guarda che ci rompiamo le palle… Pazienza… Ok…andiamo.
Andammo. Aveva ragione. Una pianista suonava una nota ogni tanto. Nel mentre rideva a squarciagola e lanciava palline da ping pong tra il pubblico. Mario dormiva di fianco a me. Era troppo anche per un membro dello storico gruppo d’avanguardia Gruppo Nuova Consonanza. Non scoprii certo nuove tecniche compositive quella sera ma imparai l’arte di dileguarsi in silenzio e con stile. Evidentemente Mario non era soltanto un Maestro nell’arte delle sette note. Alla fine riprendemmo il furgone. Ed iniziarono le operazioni di carico.
Il magazzino era a Pankow, Berlino Est per i nostalgici. E nulla intorno ti poteva far pensare nemmeno per un momento che potesse aver fatto parte della zona ovest alleata ai tempi della divisione. Se concentrati a dovere, intorno a quelle case di mattoni rossi e magazzini e alberi sembrava quasi di udire le note dell’Internazionale. Conobbi Mikail, un ballerino di origini francesi amico di Mario che ci aiutò nelle operazioni di carico. Stivammo di tutto nel furgone. Ovviamente le Arpe Eoliche occupavano i tre quarti dello spazio.
Ripartimmo l’indomani mattina alla volta della toscana. Ci fermammo a Monaco a comprare birra e a Dachau a visitare il memoriale del vecchio campo di concentramento nazista. Tornassi indietro quest’ultima tappa non la farei. Troppo pesante. Troppo reale.
Il viaggio di ritorno fu più agevole e meno pesante, come tutti i ritorni del resto. Naturalmente guidai io. Naturalmente non dimenticherò mai quell’esperienza. Naturalmente non dimenticherò mai Mario Bertoncini. Un artista, un musicista, un compositore, un docente. Ma soprattutto un amico
Ciao Maestro !
Stefano Marcantonini