VIVERE IN AMERICA E CONVIVERE CON GLI URAGANI: CHE FATICA! (MA QUANTE COSE SI IMPARANO)
VI RACCONTO L’ATTESA E LA PAURA PER L’ARRIVO DI FLORENCE A CHARLESTON, SOUTH CAROLINA…
La nostra cetonese in America Sybil Fix si è trovata ad essere la nostra inviata nell’occhio del ciclone. Il ciclone vero, la tempesta Florence che colpito la costa sud est degli Stati Uniti. Ecco come ha vissuto tale esperienza, dal di dentro…
CHARLESTON – Nei giorni scorsi, a seguito delle notizie sull’uragano Florence, ho ricevuto molti messaggi da amici in Italia chiedendo come stessi e come stessero le cose qui a Charleston. Per dirvela breve, a distanza di quasi una settimana ci stiamo ancora riprendendo. E qui Florence non s’è nemmeno visto! Ma colgo l’occasione per raccontarvi qualcosa di questo fenomeno un po’ destabilizzante con il quale convivo da quando abito negli Stati Uniti, e cosa vuol dire conviverci.
Florence – il primo uragano d’importanza di questa stagione Atlantica, quella che incide sulla costa sud est degli States – è originato l’ultimo giorno d’agosto sulla costa del Senegal, nelle vicinanze di Capo Verde, nella forma di una piccola onda tropicale. Ha cominciato il suo percorso ovest proprio mentre io prendevo l’aereo a Fiumicino per tornare qui dopo dieci settimane a Cetona.
Mentre io sfacevo i bagagli e cominciavo a riprendermi dal viaggio, la nostra onda tropicale è diventata una tempesta, quella che nei grafici meteorologici satellitari sembra un piccolo batuffolino di cotone. Poi, grazie alla temperatura particolarmente calda dell’oceano, mentre io riprendevo a lavorare, il nostro batuffolo ha velocemente preso forza, tanto da meritarsi, in breve, la definizione di uragano e di essere battezzato Florence.
E qui a Charleston se n’è cominciato a parlare. Appena si è capito che si stava indirizzando verso la costa degli Stati Uniti (la direzione generale di un uragano adesso viene prevista abbastanza presto) è cominciato quello che qui si chiama la vigilia dell’uragano. Nel nostro emisfero, la stagione degli uragani Atlantici va dal primo giugno al primo novembre, e nel sud-est degli Stati Uniti questo è un periodo annuale di vigilanza continua che ogni tanto sboccia in preoccupazione, ogni tanto in allerta, e poi, talvolta, in vero e proprio allarme. Questo succede quando il nostro batuffolo di cotone comincia ad avere l’aspetto di una grande balla di fieno rotolante puntata verso di noi.
Questo è stato il nostro caso la settimana scorsa. Nel corso di tre giorni, la balla di fieno si è inferocita, diventando sempre più grande, tanto da essere definita di categoria 4 (vanno da 1 a 5). E lì sono cominciati gli indovinelli: andrà nella Carolina del Sud o nella Carolina del Nord? Andrà nel nord della Carolina del Nord o nel sud?
Tutto d’un tratto una popolazione di vari milioni di persone in un territorio grande come due terzi dell’Italia ha drizzato le orecchie e ha cominciato a prestare attenzione. Perché cosa significa la balla di fieno rotolante? Vuol dire che tutto d’un tratto, tutto ciò che hai costruito in una vita – inclusa la tua vita stessa- può essere perso, e questo comporta una vulnerabilità esistenziale vera e propria. Niente in natura è formidabile e devastante quanto la combinazione di vento e acqua.
E quindi cosa fai? Se l’uragano è un direct hit – un colpo diretto – e di una categoria alta, normalmente, se sei una persona razionale, fai il possibile per proteggere la tua abitazione (copri finestre e porte, metti i mobili e tappeti al piano superiore, ecc.), poi prendi le cose di valore e scappi. Se, d’altro canto, è previsto non essere un colpo diretto o sarà di una categoria meno distruttiva, magari scegli di restare e ti prepari. Ci sono molte variazioni su questo tema: magari hai bambini piccoli, o hai meno tolleranza per il rischio, e te ne vai anche in un caso meno allarmante; o, al contrario, magari sei un pazzo scatenato e rimani anche nel caso di una categoria 5, magari attaccando fuori casa la bandiera confederata e mettendo i cartelli con scritto Come Get Me, Florence! È successo anche di questo.
Ma se decidi di restare, cosa comporta questo? Per cominciare, fai bene ad avere una scorta di cibo e acqua potabile per una settimana, acqua nella vasca per tirare lo sciaquone, pile, batterie, candele, e radio a batteria. Metti tutti i documenti importanti in buste di plastica, porti gli animali domestici in salvo, e fai il dovuto per proteggere la casa. È un vero e proprio stato di emergenza.
Da buona ragazza Cetonese, cresciuta in collina, quando sono venuta negli States non avevo mai preso in considerazione questo fenomeno. Non capivo bene cosa significasse. La prima impressione l’ho avuta quando, finite le università, nel nord, ho avuto un’offerta di lavoro a Jacksonville, in Florida. Era l’ottobre del 1989, e Hugo, uno dei più distruttivi, secondo gli annali degli uragani, era appena passato per Charleston. Charleston era sulla strada per Jacksonville, e per l’appunto ci abitava mio zio. Era un’opportunità per spezzzare un viaggio lunghissimo e salutare un caro parente.
Quando scesi dall’autostrada, la Highway 95, e presi l’approccio per Charleston, cominciai a comprendere il livello di distruzione che un uragano potesse portare. Querce enormi stavano a cavallo della strada. Nei campi la vegetazione era appiattita come se ci fosse passato sopra un camion, e tutto era chiuso e abbandonato. L’intera popolazione povera della città e dintorni era senza tetto, ma anche molte persone ricche, con le belle case in riva al mare portate via. L’immagine mi è rimasta impressa come se il tempo non si fosse mosso.
Quando poi accettai un lavoro al giornale di Charleston e venni a vivere qui, cominciai a capire cosa comportasse questo rito annuale. La cosa mi allarmò, insieme ad altre cose della South Carolina. Qui cominciai a studiare seriamente la storia della schiavitù in America, e venni a conoscenza del fatto che circa metà di tutti gli schiavi portati dall’Africa agli Stati Uniti dagli Europei e dai loro discendenti americani all’apice della schiavitù transatlantica, dal tardo 1700 al tardo 1800, passarono per il porto di Charleston. In altre parole, Charleston era il hub per lo smistamento degli schiavi nell’America del Nord.
Quando, poi, cominciai a seguire questa storia degli uragani atlantici e capii che provenivano tutti dalla costa dell’Africa occidentale, dove si formano come innocenti nidi d’aria, pensai che in questa apparente coincidenza c’era invece della giustizia. Mi colpì il fatto che c’era qualcosa di poetico in questo percorso di distruzione che si muoveva dall’est all’ovest seguendo il tragitto delle navi che una volta attraversavano l’Oceano Atlantico con il loro carico di sangue e sofferenza. Che la natura potesse usare gli uragani per infliggere una forma di vendetta storica?
Certo, se questo fosse il caso – se la natura avesse un intento morale – la maggior parte di questi uragani dovrebbe cogliere in pieno l’Inghilterra, la Spagna, e il Portogallo, diversi anche la Francia, per non parlare del Brasile. Ho capito più tardi che, al contrario, erano le navi degli schiavisti che si approfittavano degli stessi alisei che trasportano gli uragani africani sulle coste americane.
Apprezzamenti storici a parte, a Charleston ho anche cominciato a capire quanto questo fenomeno degli uragani potesse diventare, scusate il francesismo, una vera rottura di palle, causando, infatti, per cinque mesi all’anno, uno stato di lieve ansia psicologica costante, fomentata in ogni attimo dalle memorie di Hugo: più di quattro metri d’acqua “downtown” , cioè nel centro della città( foto scattate durante l’uragano mostrano gente che beveva champagne nei canotti nei salotti più distinti della città) e le case in riva al mare polverizzate.
Poi, nel 1992 ho avuto modo di osservare Andrew, il più costoso uragano nella storia degli Stati Uniti, con il più grosso danno a Miami. Il giornale di Charleston mi mandò come corrispondente, e nonostante la paura, mi tuffai sull’opportunità, anche perché a Miami abitava mio padre e credevo di trovare lì qualche forma di appiglio. Solo che mio padre e la sua nuova moglie avevano appena avuto un bambino, mio fratello Alex, e loro evacuarono all’alba la mattina dopo, quando alla luce del sole il danno si rese palese. Intere zone della città erano inondate ed impraticabili, ma soprattutto rimasi colpita dal fatto che interi quartieri di case non c’erano proprio più. Rimasi a Miami una settimana senza acqua, elettricità, o aria condizionata, in un calore indescrivibile, con le gangs che giravano qua e là rubando tutto.
Del 1996 ricordo Bertha e Fran, che ci spaventarono, ma andarono invece in Carolina del Nord, e nel 1999 ci fu Floyd. Fu ordinata un’evacuazione, la terza più grande negli Stati Uniti (perché l’area d’impatto aveva una popolazione enorme), ma troppo tardi; milioni di persone si trovarono intrappolate nelle loro macchine, sull’autostrada. Mio marito (al tempo) ed io avevamo appena comprato la nostra prima casa. Coprimmo le finestre e le porte col compensato e andammo con i nostri i gatti a vivere nel suo ufficio, al secondo piano di uno dei palazzi più robusti della città. Lì rimanemmo per tre o quattro giorni mentre fuori le strade si trasformarono in fiumi. Ma anche quella volta fummo fortunati.
Queste esperienze non solo ti rimangono per sempre, ma creano la tua biblioteca interiore, il tuo punto di riferimento sul quale basi le decisioni future. Should I Stay or Should I Go, dice la famosa canzone dei Clash. Quando il primo maggio s’annuncia l’inizio della stagione degli uragani, sento tirare la corda dell’ansia. Il fiato mi si ferma. Respiro. Faccio mente locale di ciò che ho imparato. Chiedo perdono per tutto il male che ho fatto in vita mia, e imploro gli dei perché ci risparmino una tempesta come Hugo, o Andrew, o Katrina (che ha quasi distrutto New Orleans nel 2005, con più di 1.800 morti), o Irma, con più di 3.000 morti in Puerto Rico.
E prego. Anche se non credo, prego.
Succede ogni tanto che un uragano si forma e si sfa, e muore nell’oceano dove vorrei che tutti finissero. Succede che ci prepariamo e non succede niente. Succede che resti e accogli in casa persone meno fortunate che non sanno dove andare. O succede che fai una grande festa, alla faccia dell’uragano. Charleston, e anche New Orleans, sono famosi per questo. Città di grandi bevitori e partyers, i bar si riempiono. Sono i cosiddetti hurricane parties, pieni di gente un po’ coraggiosa e un po’ folle che si rifiuta di inchinarsi alla natura. Non per niente è a Charleston che cominciò la guerra civile americana.
L’anno scorso e due anni prima ci furono Matthew e Irma. Evacuai e andai a stare in un piccolo B&B in Abbeville, un paesino nel nord-ovest della South Carolina, perché mi sentivo particolarmente vulnerabile e non ne potevo più dell’ansia. Fui ben accolta; feci amicizia con altri rifugiati, e in occasione di Matthew cantai in un karaoke bar (“No More Tears”). Fu uno show indegno, ma mi sentii sollevata di essere lontana dall’alluvione, e quella volta l’alluvione venne davvero, un po’ come in questi giorni in North Carolina.
E questo mi riporta a Florence. Per giorni e giorni, come tutti, ho passato ore a studiare le mappe, i grafici, le freccette, le velocità dei venti e delle piogge. Ho ascoltato e letto le previsioni e interpretazioni dei metereologi di cui nel corso degli anni ho imparato a fidarmi. Quando l’uragano si trovava a tre giorni di distanza dalla costa, ho prenotato l’hotel ad Abbeville, ma ancora non ero convinta che venisse qui. Anche quando il governatore ha ordinato l’evacuazione, conquistandosi l’accusa di una evacuazione prematura, non ero convinta. Ero pronta psicologicamente ad andare, ma ancora non ero convinta.
Il giorno dopo sembrava quasi certo che Florence venisse più o meno qui a Charleston, una categoria 4. Mia mamma ha telefonato diverse volte incoraggiandomi ad andare via. Amici su Facebook, anche da Cetona, mi hanno pregata di andare. Ho fatto una borsa, ma ancora non ero convinta. Ogni tre ore controllavo l’aggiornamento del National Hurricane Center con le nuove previsioni, i grafici, e le mappe. Finalmente, sotto la pressione di tutti, stavo per caricare la borsa in macchina – molti dei miei vicini se n’erano già andati – quando ho appoggiato tutto per terra, mi sono seduta per qualche momento in silenzio, e ho ascoltato quello che in inglese si chiama my gut, cioè il mio intuito. La tempesta era scesa a categoria 3 ed era quasi sicuramente diretta verso i nostri vicini al nord. Non glielo auguravo, ma cosi mi sembrava, e ho deciso di restare. Ho portato la macchina al quarto piano del posteggio pubblico; ho preparato le candele, le lampade, le pile, un’abbondanza di patatine e schifezze varie (che in qualche modo confortano), e mi sono appollaiata sul divano ad aspettare, chi, poi, questa volta, non è venuto.
È stata un’esperienza angosciante, ma certo, in fondo, siamo stati fortunati.
Ogni anno qualcuno mi chiede, ma perché abitate in questi posti dove correte sempre questo pericolo? Indubbiamente poi, con il cambiamento climatico il pericolo sta crescendo. Girano voci di una nuova categoria 6 per uragani straordinari. La preoccupazione si fa ancora più intensa. Ma allora perché viverci?
Francamente, io tornerei nelle antiche colline Cetonesi in un baleno se capissi come fare. E lo farò, quando potrò. Ma so personalmente che la vita è complessa, e cambiarla è ancora più complesso; spostarsi è difficile e costoso. Ci sono matrimoni, figli, e carriere da considerare. Per molti questa è casa, come la vostra a Cetona, o Siena, o Montepulciano. Casa è casa. Immaginate le milioni di persone che vivono in California, su una delle più vulnerabili faglie tettoniche del mondo. Un autorevole gruppo di scienziati anticipano che un giorno la costa ovest degli Stati Uniti, dalla punta sud della California al Washington State, crollerà in mare e non ci sarà più. Eppure continuano a viverci, come la gente continua a vivere a Napoli e sulla costa Amalfitana (le previsioni lì non sono migliori).
C’è da dire che molti hanno perso lavoro o reddito durante Florence. Infatti, oltre che logoranti, questi eventi sono costosi, anche quando non si realizzano. I negozi chiudono, le scuole chiudono, tutti gli uffici chiudono. In preda all’insicurezza, nessuno compra niente, né prima né dopo un uragano. Anche scappare è caro. Tutte le volte che c’è un uragano compare nel giornale la storia di quelli che non hanno i soldi per l’albergo, o la benzina. Lo capisco. In America meno di metà della popolazione ha a disposizione 400 dollari in risparmi per un’emergenza. In North Carolina migliaia di persone non hanno seguito l’ordine di evacuazione perché non avevano i soldi. Durante Hugo è successo lo stesso a Charleston: persone povere – e alcune un po’ testarde -.si son dovute rifugiare sui tetti per sfuggire alle acque che gli leccavano i piedi, a volte con cani, gatti, e bambini stretti nelle braccia.
Male o bene che ci vadano, questi eventi catastrofici ci lasciano scossi e svuotati. Forse perché ci fanno sentire impotenti, o forse perché l’ansia del non sapere ci sfinisce. Forse perché temiamo di perdere tutto, incluso lavoro e casa, e di rimanere nel mezzo della strada. O forse perché ci costringono a valutare la nostra vita, il valore di ciò che abbiamo accumulato o costruito, e forse a conti fatti ci sentiamo falliti o soli. O forse perché nel momento in cui ci sentivamo minacciati abbiamo sperato che la tempesta andasse altrove, e poi quando ha recato danno altrove ci siamo sentiti in colpa. Perché poi, quando è tutto passato, ci siamo guardati intorno e abbiamo preso coscienza della nostra nudità, e questo ci ha fatti sentire come bambini, piccoli e spaventati.
Perché, in fondo, questi eventi di portata cataclismica, con le immagini indelebili di case allagate, di gente rimasta senza niente e di carcasse di animali nei fiumi, questi eventi catturano la fragilità universale della condizione umana.
Oggi provo compassione per la sofferenza degli altri e gratitudine per la mia fortuna. E per oggi le lampade sono sul mio tavolo, spente. Domani, chissà.
Sybil Fix (Charleston, South Carolina, Usa, 20 settembre)
FABIO DI MEO, Massimo Mercanti, Sybil Fix