RIFLESSIONE SUL CAPITALISMO ITALIANO: IL MODELLO FIAT E IL MODELLO OLIVETTI, DUE VISIONI DEL MONDO E DUE MODI DI FARE IMPRESA
“L’icona di stile che fermò il comunismo. Ecco l’Avvocato visto dall’America”. Così alcuni giorni fa, titolava La Stampa a fondo pagina. L’articolo in questione sintetizza un documentario girato da Hooker e andato in onda su Sky, attraverso il quale si racconta la vita di Gianni Agnelli. In esso si parla della Fiat, della dinastia della famiglia Agnelli “che tanto ha dato allo sviluppo dell’Italia”. Non vi è dubbio che quell’industria abbia dato al Paese un impulso che va oltre l’automobile. Ricerca, trasporto aereo, treni e tanto altro ha rappresentato e ancora oggi rappresenta la Fiat. E che La Stampa – giornale storico della Fiat che nel 2017 si è fuso con il gruppo editoriale l’Espresso – esalti la figura d Agnelli è più che naturale.
Però, affermare che l’Avvocato sia stato un argine al comunismo italiano, mi pare un ragionare un po’ forzato. Nel senso che a partire da Gramsci, passando per Togliatti fino a Berlunguer, nei programmi del Partito Comunista non c’è mai stata l’idea di collettivizzare i mezzi di produzione, giunto un giorno al potere. Tutt’altro. Togliatti fin dagli anni della guerra aveva chiara in testa la collocazione internazionale dell’Italia e quale modello di sviluppo proporre al Paese come forza politica: nulla che assomigliasse neppure lontanamente al modello sovietico. La “Svolta di Salerno”, voluta dal Migliore, all’indomani dell’otto settembre 1943, segnò senza dubbio un prima e un dopo per il PCI. Di una “via nazionale al socialismo” si parlò a quel tempo e nei decenni a venire.
Resta invece ancora oggi aperta la riflessione su quanto la Fiat sia costata al Paese, non solo in termini di denari pubblici, ma per il modello di sviluppo, soprattutto legato al trasporto di merci e persone, che essa ha imposto all’economia italiana. Pretese Fiat che trovarono orecchie sensibili, grazie alla accondiscendenza dei governi e delle classi dirigenti politiche, che nel corso dei decenni si sono susseguite. Oggi quel modello lo stiamo pagando a caro prezzo. Città di ogni dimensione, che hanno visto trasformare le loro strade in veri e propri fiumi di lamiera, altamente inquinante in molte dimensioni. In pratica abbiamo assistito alla nascita e crescita di un modello di sviluppo che ruotava attorno agli interessi della fabbrica automobilistica torinese. In Europa, si sono sviluppate reti ferroviarie diffuse in tutto il territori, metropolitane di superficie, piste ciclabili urbane ed extraurbane, mobilità alternativa… Poi a seguire, si è curato il corso dei grandi fiumi fino a renderli tutti navigabili e utilizzabili come vie di comunicazione. E ancora, infrastrutture tranviarie ecc. Da noi tutto questo è stato tabù. E fatica ancora a entrare nei piani di sindaci e ministeri.
Ma c’è dell’altro sul piano politico e culturale da affrontare quando si parla di Agnelli. Penso all’esperienza di Adriano Olivetti (oggetto di una recente mini serie tv anche lui), al suo modello di fabbrica come luogo di produzione gratificante per le maestranze. Una fabbrica fortemente legata al territorio, agli interessi delle sue popolazioni, da qui l’esperienza degli asili aziendali, delle case popolari per i lavoratori, di un rapporto tra azienda e forza lavoro non più basato sull’autorità (della prima), ma sulla “condivisione” di obiettivi, strategie, sul coinvolgimento in un clima quasi cooperativistico. Il contrario di ciò che sosteneva Valletta alla Fiat…
Non era solo Olivetti a interpretare e proporre un certo modo di fare impresa. In Umbria, Luisa Spagnoli portò avanti una strategia industriale che somigliava e aveva molto a che fare con l’Olivetti di Ivrea. In Toscana, in mezzo ai calanchi della Val d’Orcia ci avevano provato già negli anni ’30 nella loro azienda agricola il marchese Antonio Origo e sua moglie, la scrittrice inglese Iris Cutting, che nel ’44 diedero un forte contributo alla Resistenza (Iris Origo è l’autrice di “Guerra in Val d’Orcia” ed è morta nel 1988).
Alla Olivetti dunque, tecnologia, management, finanza e politica industriale si intrecciano con un rapporto diverso con i lavoratori. La storia della Divisione Elettronica Olivetti è appassionante. Ma per Valletta era un “neo da estirpare”, e così quella anomala esperienza industriale fu emarginata fino a farla fallire. I responsabili furono diversi (venivano anche da oltre oceano). Fu una manovra a tenaglia, quella a cui fu sottoposto quell’esperimento industriale. Da una parte la Democrazia Cristiana, che aveva sposato il pensiero dell’A. D. Fiat Valletta. Un capitalismo duro, da ferriere ottocentesche. Con i sindacati nessun dialogo muro contro muro. Un modo di intendere le relazioni industriali, quello della Fiat, che rappresentava per larga parte dell’imprenditoria italiana di quegli anni, un esempio a cui guardare. A quel padronato, l’esperienza industriale e culturale di Adriano Olivetti dava fastidio. Come dava fastidio a certi ambienti politico-finanziari la politica di autonomia energetica di Enrico Mattei (e sappiamo tutti come finì).
D’altra parte però anche il PCI di Togliatti ci mise del suo. L’analisi che il Pci faceva dell’utopia olivettiana era assai critica. Quegli asili aziendali, quel rapporto di condivisione delle strategie industriali con le maestranze, quel costruire case per i lavoratori, erano viste come strumenti per affievolire la lotta di classe e indebolire, di fatto, la compattezza del lavoratori. Insomma nonostante la “Svolta di Salerno”, un po’ di settarismo era rimasto e contribuì anch’esso all’isolamento di quell’esperimento.
Ecco, ricordare Gianni Agnelli, tralasciando una parte della storia è un’operazione a metà. Non del tutto onesta intellettualmente. La Fiat ha dato e ha ricevuto. Ha determinato scelte fondamentali e ha rappresentato indubbiamente molto non solo in campo industriale: si pensi alla Juventus e più recentemente alla Ferrari, che sono due “mondi” che evocano passioni forti e muovono montagne di soldi. L’Avvocato è morto nel 2003, sono passati 15 anni, la Fiat ormai non è più un “marchio italiano” o solo italiano, fa parte del Gruppo FCA, Fiat-Chrysler. Al timone c’è Marchionne… Forse oggi di Gianni Agnelli e della Fiat si può parlare senza piaggeria. Anche su La Stampa.
Renato Casaioli
xxx