HO VISTO UN FILM: UN KOLOSSAL APOLOGO SUL BENE E IL MALE CHE E’ UNA LEZIONE SUI METODI SPICCI DEL CAPITALISMO. SU COME GLI USA SONO DIVENTATI QUELLO CHE SONO

martedì 24th, ottobre 2023 / 10:12
HO VISTO UN FILM: UN KOLOSSAL APOLOGO SUL BENE E IL MALE CHE E’ UNA LEZIONE SUI METODI SPICCI DEL CAPITALISMO. SU COME GLI USA SONO DIVENTATI QUELLO CHE SONO
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CHIUSI – Un mese fa, alla Multisala Clev si tenne una serata sull’accoglienza e i migranti, con la proiezione del film “Io capitano” di  Matteo Garrone. Un film forte sull’odissea di chi lascia l’Africa per fuggire da guerre, carestie, colpi di stato, violenze di ogni genere e si avventura prima nel deserto, poi in mare alla ricerca della possibilità di una vita migliore in Europa. Spesso trovando altre violenze, la galera, i lager e anche la morte nel canale di Sicilia. In quel “mare nostrum” che è diventato un cimitero. In questi giorni sempre al Clev Village è in proiezione un altro film “forte”. Verrebbe da dire un kolossal, sia per la lunghezza, dura più di 3 ore, sia per il regista considerato il migliore al mondo, Martin Scorsese, sia per il cast che vede insieme Leonardo Di Caprio, Robert De Niro e Lily Gladstone.

Il film è Killers of the Flower Moon, che a prima vista può sembrare un western o quasi. Un post western, ambientato nel west degli Usa negli anni ’20 del ‘900. Cento anni fa. Solo 10 anni dopo la morte di Geronimo. Precisamente in Oklahoma, cioè in un territorio e in un periodo in cui le parole pellerossa e visopallido fanno ancora parte della lingua parlata, in un periodo in cui la nazione americana cresce e si sviluppa con metodi spicci del potere, che spesso è il potere dei soldi e delle pistole.

La storia che il film racconta in quelle tre ore, con sequenze e dialoghi talvolta ripetitivi e insistiti oltre il dovuto (senza per questo mettere in dubbio la bravura di Scorsese, ci mancherebbe altro) è una storia di violenze, di sogni infranti e traditi, di deprivazioni e depredazioni del più forte a danno dei più deboli. E una storia vera peraltro, tratta da un best seller di David Grann.

La “nazione Osage”, una tribù indiana dell’Oklahoma, appunto, rinchiusa in una riserva 50 anni prima, più o meno, diviene improvvisamente ricca, per la scoperta che nei propri territori scorrono fiumi di petrolio. La cosa però scatena l’avidità della comunità bianca, pronta a tutto, anche all’omicidio, pur di mettere le mani su quella inaspettata e inusitata ricchezza, che non può rimanere in mano agli indiani.

Scorsese, partendo dal libro-inchiesta di Grann, ricostruisce i fatti, li racconta come una discesa agli inferi di un paese che pensa solo ad arricchirsi, non importa come. E che disprezza chi considera inferiore, come i nativi, già ampiamente sterminati e deportati, rinchiusi nelle riserve. E’ un west già avviato all’industrializzazione, senza regole e senza miti. Senza moralità. Unico Dio, il denaro. L’avidità, la spasmodica ricerca non della felicità, ma della ricchezza personale, l’unica molla che muove quel microcosmo. In qualche modo è una sortta di “affresco” storico sull’America degli anni ’20. Quell’America che anche laggiù in Oklahoma non era più far west, ma gli somigliava ancora parecchio, nonostante la ferrovia avesse accorciato le distanze…

E quello che è il substrato della nascita di una nazione (parto violento e non certo indolore), nel film è anche una saga familiare, un triangolo fra i tre protagonisti principali: Ernest/Di Caprio,  reduce della Grande Guerra, avido, ma svampito e incapace; Molly/Gladstone, sua moglie, indiana della nazione Osage, che diventa vittima sacrificale, ingannata e alla fine pure avvelenata; William/De Niro, lo zio di Ernest, gangster che si mette a capo della “tribù” dei gangaster cioè dei bianchi pronti a tutto pur di assicurarsi l’oro nero che sta rendendo ricchi quegli sraccioni degli Osage… E’ sempre la solita storia del ricco e famelico possidente che prevarica e uccide, anche, se necessario per raggiungere il proprio scopo. Sembra un fumetto di Tex Willer, ambientato n po’ più avanti nel tempo. Ma il film di Scorsese, è meno western di quanto possa apparire, è anche un apologo sull’amore, sulla redenzione-espiazione in senso cristiano, sulla famiglia…  Un apologo sul bene e il male.

All’inizio del film la Nazione Osage sembra l’America che avrebbe potuto essere e che non è stata, in cui bianchi e nativi convivono ormai in pace, si sposano e si mescolano. Creano famiglie miste. Poi il petrolio scompagina i giochi. E quel melting pot creato a fatica, con i bianchi vincitori e gli indiani ridotti a poche cellule chiuse nello loro riserve, privati delle terre e delle loro tradizioni, ma ormai in via di integrazione, va in frantumi per l’avidità dei più forti. Un’avidità che però è essa stessa tragedia, un sasso legato al collo che trascina a fondo chi non conosce altra legge al di fuori di quella dei soldi, della violenza e della prevaricazione.

Chissà se con altri attori e non con due “totem” come Di Caprio e De Niro (che nel film, per una questione di mascelle, somigliano entrambi al Marlon Brando de “Il Padrino”) il film avrebbe avuto la stessa potenza e la stessa forza di attrazione del pubblico. Poteva anche durare una mezz’ora in meno senza perdere niente, ma resta comunque un “filmone”.

Volerci vedere, tra le righe, ciò che sta succedendo a Gaza, probabilmente è una forzatura. E non solo perché il film Scorsese lo ha girato prima, ma non è una forzatura vederci i modi tragici con cui si è affermato il capitalismo e certi paesi guida hanno gettato le basi della loro potenza. Metodi che usarono  i francesi, gli inglesi, gli olandesi, i belgi in Africa e in Asia, i Conquistadores spagnoli e portoghesi e poi gli yankees con le loro “giacche blu” in America.

E se alla fine il film è solo una saga familiare, certe cose le fa capire lo stesso. E bene. Consigliato. Soprattutto in tempi come questi in cui delle depradazioni e delle violenze dei confronti dei più deboli ci si dimentica spesso.

m.l.

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