QUELLO SCRIGNO DI MEMORIA CHE E’ IL MUSEO DEL DIARIO DI PIEVE SANTO STEFANO

lunedì 22nd, maggio 2023 / 14:12
QUELLO SCRIGNO DI MEMORIA CHE E’ IL MUSEO DEL DIARIO DI PIEVE SANTO STEFANO
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NON FATELI MANGIARE AI TOPI DEL DUEMILA! Queste le parole scelte da Saverio Tutino nel 1984 per invitare gli italiani a credere in quella impresa che, partita come una scommessa cui pochi diedero inizialmente credito, oggi è diventata una realtà incredibile e per tanti versi miracolosa: l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano (Arezzo) che ha nel Piccolo museo del diario la sua appendice espositiva.
Il “paese del diario” è un borgo di 3000 cittadini in carne ed ossa e 10000 di carta, ci dice Luigi Burroni, la straordinaria guida che ci è toccata in sorte stamane, quando abbiamo finalmente concretizzato – io e Giustina Oriental Caputo– l’antico comune desiderio di andare a visitarlo.
Ma Luigi Burroni è molto più di una guida, è un uomo che ha fatto del museo una vera e propria missione, cui dedica con dedizione commovente le sue energie e la sua competenza. È lui che ci ha regalato un racconto-colloquio durato un’intera mattinata ma che poteva essere inesauribile, tante e di tale intensità sono le storie racchiuse nello spazio ristretto di un “piccolo” museo che richiede un lavoro ciclopico e certosino da parte dei pochissimi addetti.
“Avete un diario nel cassetto? Non lasciate che vada in pasto ai topi”, così pregava il giornalista e scrittore Tutino nelle inserzioni che pensò di pubblicare sui giornali quando ebbe l’idea di proporre il progetto all’allora sindaco Albano Bragagni – che ha poi “regnato” per trent’anni sul paese di Fanfani (il cui ritratto campeggia nella sala consiliare), mai facendo venir meno il suo sostegno all’impresa – il quale gli concesse una stanzetta nell’unico posto di Pieve Santo Stefano risparmiato dalle mine tedesche: il Palazzo Pretorio, e da lì ebbe inizio tutto: il paese la cui memoria era stata brutalmente cancellata fu consacrato alla Memoria.
Ma non si immagini che alla crescita miracolosa delle acquisizioni – che iniziarono a fioccare ininterrottamente anche grazie al Premio istituito nel 1985 per conquistare un po’ di visibilità – abbia corrisposto una conseguente crescita dei finanziamenti: La Fondazione Archivio Diaristico Nazionale onlus (Archivio dei diari) ha “ben due”dipendenti, gli altri collaboratori a vario titolo lavorano a partita Iva, poi ci sono i tanti volontari, qualche ricercatore, studenti che fanno le tesi; “ci arrangiamo, come si dice in Italia”, dice Burroni, marito della ex direttrice Loretta Veri – che ora si occupa di ricerca fondi – e ha lasciato il posto all’attuale direttrice Natalia Cangi che si prodiga nelle mille attività che il suo ruolo richiede (e anche in quelle che non le spetterebbero).
Le collaborazioni con Enti e Istituzioni esterne sono tante, Rai Storia in primis, e la Sacher di Nanni Moretti che un giorno è arrivato, si è innamorato del museo e ha girato con giovani registi allora emergenti “I diari della Sacher”, sette film-documentario presentati a Locarno nel 2002.
Il museo è espressamente dedicato alla scrittura privata, un materiale delicatissimo che racchiude le vite di migliaia di persone nelle forme di diari, epistolari e memoriali, e tutto insieme racconta la storia del nostro paese nei suoi passaggi cruciali. Ci sono circa 500 testimonianza sulla Grande Guerra, più di 3000 sulla Seconda guerra mondiale, 1200 sulla Grande Emigrazione, 500 di migranti in arrivo oggi, 150 del periodo del Covid, molte di giovani, e tantissimo altro.
Il materiale è tutto catalogato e digitalizzato, si presta perciò ad una prima ricerca online, ma il materiale fisico è tanto e l’Archivio è ormai insufficiente, nonostante il prodigarsi dell’Amministrazione comunale. C’è un progetto, avviato dal Ministero della Cultura ai tempi di Franceschini, e non smentito al momento da Sangiuliano, di finanziare una nuova sede in cui possano trovare alloggio insieme l’archivio, la biblioteca, il museo e gli uffici. La speranza è davvero grande.
I curatori hanno molto chiara l’idea che quelle che abitano negli armadi sono vite private, e le volontà di ciascuno vengono religiosamente rispettate: c’è chi chiede di rimanere anonimo o di cambiare nome, oppure richiede la lettura del materiale consegnato solo dopo un certo lasso di tempo.
Ogni anno a settembre si svolge il “Premio Pieve Saverio Tutino” (quest’anno ricorre il centenario della nascita del benemerito fondatore cui il museo dedica una bella parete). La selezione preliminare dei testi presentati è fatta da gente comune e coinvolge tanta parte del paese che diventa per mesi un grande laboratorio di lettura, fatto straordinario che ha contribuito a cambiare in parte i connotati del paese stesso; gli otto finalisti sono poi letti da grandi nomi dell’editoria. Il vincitore diventa un libro pubblicato da Terre di Mezzo. Altri testi vengono poi pubblicati anche da altri editori, tra cui Einaudi o il Mulino.
La nostra preziosa guida ci ha poi raccontato il processo che ha portato a scegliere per l’allestimento delle sale lo studio di Architettura e Design Dotdotdot che ha trovato nella lettura del libro di Mario Perrotta, “Il Paese dei diari”, ispirazione per offrire al visitatore un’esperienza multimediale coinvolgente ed immersiva che evoca, tra le altre cose, il brusio, il parlottio che regna nel corridoio dei cassetti della memoria, in cui si immagina che le persone che riposano lì parlino tra di loro. Il museo, inaugurato dieci anni fa, è ancora perfettamente funzionale e in grado di restituire la dimensione intima e raccolta che serve a predisporre all’ascolto.
Il percorso di visita vero e proprio si snoda in un corridoio e tre sale, di cui le ultime due dedicate in esclusiva a due opere eccezionali. Le voci e le pagine delle donne e degli uomini che continuano a vivere a Pieve arrivano al visitatore attraverso l’apertura dei tanti cassetti della memoria e così anche noi abbiamo ascoltato, ci siamo commosse, abbiamo sorriso, abbiamo gioito per i racconti di “Quando Torino era capitale” di Luigi Re o per il giovane Sisto Monti Buzzetti, morto in prima linea il 9 giugno 1917, due giorni prima di compiere 21 anni (“Scusate la calligrafia”); per il diario di Lireta, ragazza albanese (“Lireta non cede”) o per le simpatiche annotazioni di uno spensierato adolescente nella Romagna degli anni ’60 (Massimo Bortolotti Stella) o per i ben più terribili pezzettini di carta infilati nei vestiti usciti dalla prigione di Via Tasso nei due mesi che precedettero il massacro delle Fosse Ardeatine in cui cadde anche il diciassettenne Orlando Orlandi Posti (“Roma ‘44”). E ancora, per la storia di Luisa T. segregata in campagna che scrive e poi distrugge per paura del marito (“Caro quaderno”, uno dei racconti dei Diari della Sacher).
Un vero e proprio jukebox della memoria riproduce storie di adolescenti vissuti in varie epoche che ricostruiscono 200 anni di storia italiana e un trittico fornito di schermi che mostra video realizzati appositamente in funzione di alcune storie.
Le ultime due sale meritano da sole la visita: la prime è quella dedicata a Vincenzo Rabito, un ragazzo siciliano del ‘99, semianalfabeta che decise a 70 anni di raccontare la sua vita, ingaggiando una guerra di sette anni con la macchina da scrivere che produsse 1027 pagine che raccontano con una verve incredibile 50 anni di storia italiana. Il lavoro è stato pubblicato da Einaudi (“Terra matta”) diventando un vero caso editoriale. Avevo già dedicato alcuni anni fa un post a questo lavoro straordinario:questo il link https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=2222508784693858&id=100008042734928
Nell’ultima sala l’impatto del prodigioso lenzuolo di Clelia Marchi, consegnato personalmente dall’autrice, è indescrivibile. Un lavoro che ha del miracoloso, scritto a mano da una contadina che ha fatto la seconda elementare e che ha scelto il lenzuolo più prezioso del suo corredo per rivolgersi al lettore e raccontargli la sua storia senza infingimenti (“Gnanca na busia”), dopo la morte dell’amatissimo marito.
Da questa autentica esperienza immersiva siamo uscite come da un cunicolo spazio-temporale, con un’impronta profonda destinata a rimanere impressa nella mente e col desiderio e il proposito di tornare, di raccontare (questo si sarà capito…), di divulgare la conoscenza di questo grande patrimonio sconosciuto ai più. Andate a Pieve Santo Stefano, vi piacerà moltissimo!
Lucia Annunziata
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