HO UCCISO LA MIA COMPAGNA MA “NON È COLPA MIA”. UN LIBRO PER CAPIRE IL FEMMINICIDIO

giovedì 28th, febbraio 2019 / 14:17
HO UCCISO LA MIA COMPAGNA MA “NON È COLPA MIA”. UN LIBRO PER CAPIRE IL FEMMINICIDIO
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Nella piccola, accogliente libreria “Libri Parlanti” di Castiglione del Lago, la psicologa e psicoterapeuta Lucia Mangionami e la giornalista Vanna Ugolini parlano del loro libro “Non è colpa mia”, edizioni Morlacchi, un lavoro a quattro mani per iniziare a capire cosa si nasconde dietro la mano assassina di un femminicida.

La prima parte del libro, scritta da Vanna Ugolini, consiste in tre interviste, fedelmente trascritte dalle registrazioni, a uomini di diversa cultura, occupazione ed estrazione sociale, che hanno ucciso le loro compagne. Le condizioni assolute e necessarie per le interviste (avvenute in carcere), spiega la Ugolini, sono state tre: le sentenze dovevano essere passate in giudicato, ovvero la colpevolezza era certa; gli intervistati non avrebbero avuto nessun privilegio dall’accettare di raccontarsi; l’autrice avrebbe rispettato la richiesta di anonimato. I nomi e qualche piccolo dettaglio (ad esempio due figli invece di uno) sono stati modificati ma non incidono in alcun modo sul senso o la autenticità delle narrazioni. Nella seconda parte del libro, Lucia Mangionami, attiva nel campo della violenza contro le donne dal 2003, vice-presidente di Libertas Margot, un’associazione che si occupa di violenza di genere con sede a Perugia,  fa un’analisi psicologica della violenza.

È Vanna Ugolini ad aprire la presentazione del libro. “Ho ascoltato migliaia di storie di donne vittime di violenza. Mi mancava l’altra parte. Quella di chi la violenza la perpetra”. Per quanto cruda possa essere, la ricerca della verità passa sempre per l’ascolto di tutte le campane. È la parte più ostica del mestiere di giornalista.

Ma quelle interviste, per Vanna Ugolini, ex presidente di Libertas Margot, vice-caposervizio de “Il Messaggero” di Terni, giornalista di cronaca nera e giudiziaria avvezza a cadaveri e assassini, diventano una spina nel fianco. Vanna raccoglie le interviste nel 2013 ma è solo nel 2017 che trova la forza di sbobinarle grazie all’incoraggiamento di amiche, colleghe, membri dell’associazione, donne vittime di violenza.

Per quattro anni la rabbia e il disgusto le restano appiccicate addosso, impedendole di riaccostarsi a quelle narrazioni. “Mi aspettavo di trovare persone remissive, pentite di quello che avevano fatto”, racconta,”e invece mi sono trovata davanti tre uomini che si auto-giustificavano, convinti che la colpa, in fondo, non fosse la loro”. Da qui il titolo del libro.

Per tutto il tempo dei colloqui, prosegue la giornalista, i tre uomini hanno tentato di convincerla delle loro ragioni. Amplificavano dettagli ininfluenti (due delle vittime avevano tradito), minimizzavano quelli più importanti, attribuendo la colpa a tutto tranne che a sè stessi: quel giorno nevicava, se non avesse nevicato sarei andato al lavoro e non sarebbe successo. Come se quell’omicidio fosse stato l’epilogo di una sfortunata serie di circostanze.

Ma la spiegazione, dice Lucia Mangionami, non va ricercata nella malattia mentale, il raptus, l’attimo di follia o l’improvviso calo dei freni inibitori. È un fenomeno molto più articolato.  Attualmente non siamo neanche sicuri dei numeri. Conosciamo quelli del femminicidio, almeno quelli classificati come tali e non come omicidi, ma i dati a disposizione sono ancora troppo pochi e troppo confusi rispetto a realtà e complessità del fenomeno.

“Non dimentichiamo”, aggiunge, “che la legge sulla violenza sessuale è stata approvata solo nel 1996. Praticamente ieri. La strada è ancora lunga”. E tortuosa, temo.

Intervengo con una riflessione: è certo che una razionalizzazione del femminicidio non può prescindere dalla componente socio-culturale. Le leggi varate tra gli anni ’70 e ’90 in materia di diritto (divorzio, aborto, abolizione del delitto d’onore, legge sulla violenza sessuale) hanno di fatto sancito una maggiore autonomia e autodeterminazione della donna. Ma se le donne hanno vissuto un’epoca di evoluzione, gli uomini (con le dovute, larghe eccezioni) sembrano essere rimasti indietro. Forse la loro storia non è andata di pari passo. Di fronte alla perdita del potere decisionale il maschio ha reagito con l’unico strumento di difesa che conosce: la violenza.

Un  forte retaggio culturale, secondo Lucia Annibali, intervistata a novembre da primapagina in occasione dell’apertura del centro anti-violenza di Città della Pieve, pervade in realtà l’intero tessuto sociale, senza distinzione di genere, ponendosi come ostacolo principale al riconoscimento del problema in quanto sociale e di vaste proporzioni.

Lucia Mangionami riconosce il ruolo della cultura ma ritiene che ci siano anche forti componenti di carattere psicologico. Tutte da sviscerare e analizzare. Studi e approfondimenti in merito sono ancora troppo acerbi per trarre delle conclusioni. Il libro stesso non vuole ( e non può) dare risposte ma porre delle domande. E sentire “l’altra parte” serve a capire cosa passa nella testa di chi uccide la propria compagna per collegare le esperienze alla realtà socio-culturale e al processo psicologico che porta un uomo normale a diventare assassino.

Un oceano tutto da attraversare da cui è emersa una goccia. La Mangionami parla di caratteristiche comuni a chi perpetra violenza sulle donne. Si tratta di uomini al di sopra di ogni sospetto, assolutamente normali, caratterizzati però da un’estrema rigidità del pensiero, tutto è bianco o nero.  Niente sfumature. Qualcuno è molto religioso. Ma si tratta anche di uomini seduttivi, performanti, monopolizzanti. Alcuni, aggiunge la Ugolini, sono molto belli, sempre curati in ogni dettaglio estetico. Tendono a rendersi speciali, necessari. Già dal primo incontro sono affabili, mostrano un interesse totale per la donna che hanno di fronte, vogliono sapere tutto della sua storia, i suoi pensieri, la sua vita.  Ma difficilmente parlano di sè stessi. Raramente si raccontano.

Una goccia, dicevo, indizi che non sono la regola e non possono considerarsi i tratti di un preciso  identikit, ma è un inizio. Il principio di un percorso che è stato possibile non solo grazie al libro che per la prima volta intervista i carnefici e ne permette l’analisi, ma anche grazie al primo sportello di ascolto per uomini violenti, attivo in Umbria da tre anni e realizzato con il sostegno di Libertas Margot.

Elda Cannarsa

In foto da sinistra Lucia Mangionami e Vanna Ugolini
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