HO VISTO UN FILM: QUEL GENIO ANTIPATICO DI BOB DYLAN. CHALAMET? SENZA INFAMIA E SENZA LODE

CHIUSI – Sono andato a vedere “A complete unknown”, il film su Bob Dylan prodotto, co-scritto e diretto da James Mangold. Bene. Ne sono uscito da un lato sollevato e rinfrancato. Dall’altro deluso.
Sollevato e rinfrancato perché il film conferma tutto ciò che su Bob Dylan dicevamo nello spettacolo teatrale “On the road. Again” prodotto e presentato da primapagina nel 2019: gli incontri all’ospedale con Woody Guthrie malato e con Pete Seeger, che lo andava a trovare, le canzoni che gli faceva ascoltare, ritenendolo, come tutti il vate del folk. C’è l’America ancora razzista e infuocata dei primi anni ’60, devastata dalla guerra del Viet Nam, ma in marcia verso il sogno di Martin Luther King. C’è la discussa svolta rock, con il passaggio del puro folk voce chitarra e armonica alla chitarra elettrica e a sonorità più complesse al festival di Newport. E c’è anche l’anima inquieta, ma scostante di Dylan, la sua “antipatia” congenita, poi diventata famosa e conclamata, ma che il “menestrello” di Duluth aveva già a vent’anni, quando non era ancora nessuno. Sullo sfondo i localini e le strade del Greenwich Village, dove suonano i “compagni” come Pete Seeger che era iscritto al Partito Comunista Americano. C’è la tomentata relazione artistica e sentimentale con Joan Baez. E quella non meno tormentata con Suze Rotolo, la ragazza che appare nella copertina del suo secondo album “The freewhelin’Bob Dylan” (1963) che nel film si chiama Silvie. E a questo proposito c’è una imprecisione nel film: la ragazza ad un certo punto dice che andrà a Roma a studiare. No, andò a Perugia. Ed è a Perugia che Bob Dylan la perse, perché nella città umbra Suze conobbe un perugino che poi diventerà suo marito…
Questa circostanza non l’avevamo puntualizzata neanche noi, nello spettacolo citato. Ma per il resto, come dicevo, ho ritrovato tutto e la cosa mi fa piacere, perché quello spettacolo parlava dell’America di ieri e dell’America di Trump (quella del 2019), ma adesso ci risiamo. Con gli interessi. E lo faceva partendo dalle canzoni di Woody Guthrie sulla grande depressione, sul “dust blow” e sulla miseria dei lavoratori e dei diseredati per poi raccontare l’America della speranza atraverso le canzoni-poesie di Bob Dylan, il suo erede designato, che però per sfuggire all’affetto dei fans cambia spesso strada. Anche musicalmente. Infine l’America degli anni ’70-80 e di adesso per il tramite di Bruce Springsteen che è un Woody Guthrie aggiornato che usa il rock elettrico più di Bob Dylan per raccontare comunque città piene di ruggine e fuliggine, famiglie operaie, gente che cammina lungo i binari della ferrovia e dorme negli acquedotti, ragazzi che sfidano il “confine” per il sogno di una vita migliore e che muoiono per lo scoppio di un laboratorio per confezionare dosi di droga laggiù dalle parti di El Paso… Gli amici che erano sul palco in quello spettacolo, overo Martina Belvisi, Alessandro Manzini, Massimo Giulio Benicchi, Luca Morelli e i Dudes possono confermare.
Tornando al film di Mangold ho letto commenti ambivalenti sull’interpretazione di Timotée Chalamet. Alcuni positivi, altri molto meno. Una cosa il giovane Chalamet la fa: rende benissimo l’immagine scostante e antipatica di Dylan. Su questo è praticamente perfetto. Sulle canzoni che ha imparato a cantare e suonare anche. Se la cava. Somiglia abbastanza al menestrello giovane. Per il resto però non cambia quasi mai espressione. E non racconta altro, neanche quando la macchina da presa cita copertine di dischi e prova a ricreare il mood di quegli anni in ambienti off, strade bagnate, porti rugginosi, festival folk che andavano di moda, ma solo per una parte di America, per una parte di mondo…
Insomma, lo avrete capito, a me il film è piaciuto ma solo a metà. O non del tutto. Certo le canzoni di Bob Dylan, soprattutto quelle degli inizi sono pietre miliari della vita di chi ha la mia età. Sono la colonna sonora di un’epoca e come tali vanno trattate. Con cautela, perché è roba delicata. E’ poesia. Non a caso Dylan nel 2016 ha preso il Premio Nobel per la letteratura, che essendo lui un tipo scostante, e non molto incline ai convenevoli, non andò nemmeno a ritirare… Ci andò Patty Smith. Altra poetessa del rock.
Se dovessi dare un voto, io a “A complete unknown” più di un 6 tendente al 6- non darei. Ma, l’ho visto nella versione italiana. Con un doppiaggio che rende e non rende. Anche Edward Norton nei panni di Pete Seeger nella versione italiana stenta un po’… Magari in lingua originale il film è meglio. E sono meglio anche le singole interpretazioni.
Detto questo, dico anche ben vengano film del genere, che almeno fanno discutere e parlare di nuovo di un tempo per molti versi irripetibile. Viva quell’antipatico di Bob Dylan, lunga vita a lui e al suo mito. Di Timotée Chalamet ce ne sono tanti in giro. Non sfigura, ma neanche esalta. Però forse è antipatico e scostante pure lui.
m.l.