GIORGIA MELONI, LA FIAMMA DEL MSI E LA SINISTRA CHE SI FA MALE DA SOLA

lunedì 15th, agosto 2022 / 11:17
GIORGIA MELONI, LA FIAMMA DEL MSI E LA SINISTRA CHE SI FA MALE DA SOLA
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Giorgia Meloni ha 45 anni. Potrebbe essere la prima donna premier in Italia, e potrebbe essere anche la prima premier leader di un partito post fascista. Per una questione di età la number one di Fratelli d’Italia non può essere considerata “fascista” nel senso storico del termine, ma la fiamma tricolore che campeggia nel simbolo del suo partito è il simbolo del Msi, il partito di Almirante e Michelini che fascisti erano stati per davvero nella Repubblica di Salò e tali erano rimasti anche negli anni successivi. Simbolo poi mutuato da Alleanza Nazionale ai tempi d Gianfranco Fini. La continuità insomma con la destra prima neofascista dichiarata, poi solo solo fascistoide, dopo lo strappo di Fini che a Fiuggi definì il fascismo come “il male assoluto”, non è un’impressione o un’opinione. E se anche adesso la presidente di Fratelli d’Italia facesse togliere la Fiamma dal simbolo elettorale del partito, per le elezioni del 25 settembre, come qualcuno ha chiesto, non è che cambierebbe molto.

La fiamma tricolore rappresenta infatti la fiamma che arde sulla tomba di Mussolini. Così spiegò quel simbolo il primo movimento che lo usò, Giovane Italia, movimento giovanile dell’Msi a metà degli anni cinquanta. 

Ovvio che non è il simbolo del partito il primo dei problemi o la ragione numero uno per non votare Giorgia Meloni, ma anche quello conta, perché racconta una storia che non può essere sottaciuta o archiviata.

Il Msi fece la sua parte nella “strategia della tensione”, fu il partito ispiratore della rivolta di Reggio Calabria, ha avuto le sue vittime (Ramelli, Mantakas, i due figli del militante Mattei…) ma quanto a pestaggi, azioni violente e teorizzazione della violenza politica negli anni ’60-70 non si è fatto mancare niente, Almirante teorizzava la necessità di fare come in Grecia, cioè di fare il colpo di stato militare e qualcuno dei suoi ci provò più volte: nel ’64, nel ’70, del ’74…

Negli ultimi anni Giorgia Meloni non solo non ha mai condannato o fatto allontanare i militanti che ai suoi comizi fanno il saluto romano, che non è propriamente goliardia (e in Italia sarebbe pure vietato per legge), ma si è spesso fatta fotografare insieme, o ha condiviso le posizioni di ambienti e personaggi come il premier ungherese Orbàn, i suoi colleghi di Polonia e Repubblica Ceca, i fascisti spagnoli di Vox o l’ex spin doctor di Donald Trump, Steve Bannon, ideologo dell’ultra destra sovranista internazionale, o della cosiddetta “Internazionale nera”, uno che però adesso negli Usa è un pregiudicato, colpevole di oltraggio al Congresso. L’uomo che ha definito Giorgia Meloni elogiandola, una “fascista, neofascista”.

Cone dicevamo, senza la fiamma tricolore nel simbolo di partito cambierebbe poco perché resterebbero comunque le posizioni ultraliberiste in economia, il voto favorevole di Giorgia Meloni alla Legge Fornero e ad altre “porcate” dei governi tecnici o di centro destra di cui ha fatto parte come ministro, resterebbero le posizioni sovraniste e nazionaliste in politica estera, l’idiosincrasia per i migranti e per lo straniero in genere, con il no allo ius soli e allo ius scholae, per i ragazzi nati in Italia o che hanno fatto le scuole primarie in Italia; resterebbe la malcelata voglia di cambiare la Costituzione in senso presidenzialista e quella altrettanto malcelata di cancellare norme e diritti acquisiti e far tornare indietro il Paese sul piano dei diritti civili (legge 194 sull’aborto, matrimoni tra persone dello stesso sesso, adozioni gay ecc…).  Insomma se alle elezioni dovesse vincere la destra (come appare probabile) e Giorgia Meloni dovesse diventare premier non sarebbe “il fascismo alle porte”, l’inizio di un nuovo nefasto “ventennio”, ma sarebbe la vittoria della parte più conservatrice, bigotta e reazionaria della politica italiana. Il fatto che Giorgia Meloni sia una donna non cambia di una virgola il problema e non attenua di un millimetro il quadro fosco che si presenta.

Il problema però non è solo Giorgia Meloni e i suoi compagni di viaggio (Salvini e Berlusconi, Dio ce ne scampi e liberi), il problema è che  anche sul fronte avverso aleggiano posizioni simili o non troppo dissimili, e aleggiano pure personaggi che su molte questioni (tipo i diritti civili, il lavoro, la sanità pubblica) la pensano come Giorgia Meloni o quasi. Pensare per esempio ad una ricandidatura di Pierferdinando Casini nelle fila del Pd è un attentato all’intelligenza e alla pazienza degli elettori del centro sinistra. Vuol dire volersi fare del male da soli.

La presenza nelle stesse liste di Fratoianni & C.  sembra solo una foglia di fico, una presenza ornamentale. E se candidare in quota Sinistra traliana Ilaria Cucchi e Aboubakar Soumahoro il sindacalista ivoriano, naturalizzato italiano, che da anni si batte per i braccianti e gli invisibili del mondo del lavoro, è un segnale interessante, lo è di meno, molto di meno l’idea di candidare anche Elisabetta Piccolotti, che è una brava e pure in Tv se la cava benissimo, solo che è la moglie di Fratoianni. Le cordate di famiglia non vanno bene soprattutto a sinistra e soprattutto se i posti a disposizione sono meno della dita di una mano… Quindi se Sinistra Italiana ritiene utile candidare la Piccolotti, a fare un passo indietro dovrebbe essere Nicola Fratoianni. O l’uno o l’altra. Tutti e due appare francamente un po’ troppo, anche per chi negli anni si è abituato a digerire sassi e rospi, pur di non far vincere le destre… Stesso discorso per Franceschini e consorte.

Neanche l’abbandono di Calenda, 5 giorni dopo l’accordo, e la concorrenza che lo stesso Calenda e Renzi faranno al Pd per accaparrarsi i voti del centro sembra convincere Letta a togliersi di dosso gli abiti moderati e neocentristi da partito democristiano in tutto e per tutto e provare a tornare a parlare ai ceti popolari, ai meno garantiti, alla sinistra dispersa, orfana, smarrita che non va più a votare e a presentare un programma anche vagamente socialdemocratico. Non ne ha azzeccata una Enrico Letta e sembra un giocatore che sa di aver già perso, un segretario con la valigia in mano. Non riesce nemmeno ad aprire la porta ad un possibile accordo post elettorale con i Stelle, l’unico in grado, forse, di arginare la valanga nera.

A sinistra ci sarà, se riuscirà a raccogliere le firme necessarie, anche Unione Popolare, il rassemblement tra l’ex magistrato ed ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris, Rifondazione Comunista e Potere al Popolo, che si presenta con posizioni più chiare e più radicali (un po’ alle Melenchon, diciamo), ma l’impressione è che sarà grasso cola se riuscirà a passare il quorum e portare in parlamento qualche sentinella. La sensazione del voto inutile è forte ed è una pessima cosa, in politica una delle peggiori…

m.l.

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