POST-NEOLIBERALISMO. UNA NUOVA NARRAZIONE

martedì 02nd, giugno 2020 / 14:37
POST-NEOLIBERALISMO. UNA NUOVA NARRAZIONE
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E quindi il Coronavirus dovrebbe cambiare il mondo. Ci siamo accorti che le cose non vanno bene, che la sanità pubblica è rimediaticcia, che “basta un virus” a scatenare una nuova crisi economica, che il pianeta sta morendo, che l’ossatura dell’unione europea è debole, il sistema economico è malandato, la classe dirigente è fiacca.

Ci siamo accorti cioè che il Neoliberalismo fa più danni della grandine. E però, ce ne eravamo accorti già nel 2008, quando, per sintetizzare, l’incontrollata concessione di crediti, che aveva creato l’illusione di essere tutti uguali di fronte alle banche, si sgretolò sotto i colpi delle insolvenze.

La Grande Recessione era l’occasione per cambiare una narrazione che aveva condotto allo scempio finanziario e alla miseria umana. Eppure, non è successo. Ci siamo limitati ad evidenziare il lato oscuro del Neoliberalismo. Perchè?

Perchè mancava, e manca tuttora, una diversa chiave di lettura della realtà. In altre parole, mancava una narrazione sostitutiva, in grado di spiegare il presente e progettare il futuro. Accecati dai bagliori del libero mercato, abbiamo dimenticato che vi sono altri modi di concepire il mondo. (Il valore delle cose, Raj Patel, Feltrinelli,2012).

Come se fosse una verità scientificamente provata, il neoliberalismo ci ha fatto credere che il mondo si divide in vincitori e perdenti. Chi non ce la fa, sua sarà la colpa con tutto quel che ne consegue. Abbiamo creduto che l’uomo, per sua stessa natura, è egoista, possessivo, lupo per l’altro uomo; che la competizione è un’inclinazione innata, un valore da coltivare nel lavoro, tra individui, tra Stati. Che l’individualismo è vincente e la collaborazione è buonista. Nella sfera economica abbiamo assistito ad una privatizzazione a tappeto, tagli delle spese come se non ci fosse un domani (che infatti è in equilibrio precario), ad un Mercato che ci viene presentato come se fosse una qualche situazione neutra e naturale, che non favorisce alcun soggetto in particolare, che ci influenza come la forza di gravità o la pressione atmosferica (George Monbiot)

Quando la Recessione del 2008 ci ha presentato il conto del fallimento, si è insinuato il dubbio che il Neoliberalismo fosse una storia già sentita, che la frase finale non sarebbe stata ” e vissero tutti felici e contenti”. Una storia sbagliata. Ma, in assenza di nuove coordinate, non abbiamo cambiato rotta. Ci siamo accontentati di una minestra riscaldata.

Il Neoliberalismo è una modernità superata, scrive l’economista francese  Éloi Laurent, pretende di essere una spinta permanente al cambiamento e alla riforma, invece racchiude gli individui e i gruppi nel mondo così com’è, screditando le dissidenze e soffocando i pensieri nuovi. (Mitologie economiche, Feltrinelli, 2017).  Una cosa però è chiara, afferma l’economista e giornalista britannico Raj Patel, non sarà il pensiero che ha provocato questo disastro a tirarci fuori dai guai.

Suona familiare? Direi di sì. Un’affermazione simile è proprio di questi tempi pandemici: non ci può essere un ritorno alla “normalità” perchè è stata proprio la normalità a condurci alla crisi. (Noam Chomsky)

Ora, non è che non sia successo nulla di rumoroso in questi anni. Diciamo che Éloi Laurent ci vede giusto quando parla di uno status quo talmente radicato e politicamente omogeneo da screditare le dissidenze e soffocare i pensieri nuovi. A destra come e a sinistra non c’è stata, e continua a non esserci, la volontà di creare una storia nuova, nè la sensibilità (ma anche l’intelligenza) di cogliere segnali che vengono da altre realtà.

UNA NUOVA NARRAZIONE

Perchè i pensieri nuovi, in fondo, ci sono. Un po’ sparsi, un po’ isolati e un po’ orfani di una leadership capace, ma ci sono. E tutti propongono una storia simile: il ripristino del bene comune, delle comunità, e di una politica che li tuteli; la ridistribuzione della ricchezza, la giustizia sociale, la collaborazione e la solidarietà come valori, una funzione coordinatrice dello Stato, la tutela dell’ambiente.  Il valore della collettività contro l’assioma dell’individualismo. Come a dire (e si è detto), nessuno si salva da solo.

Su questi principi si muove, ad esempio, l’Internazionale Progressista, di cui abbiamo parlato su questi schermi.

E una storia simile, dal titolo La Restaurazione,  la racconta George Monbiot, editorialista del Guardian, studioso del fenomeno neoliberalista.

Monbiot si appella proprio a quelle caratteristiche umane che la dottrina neoliberalista ha messo da parte: collaborazione e altruismo. E non è il solo. Contro il paradigma pseudo-scientifico della competizione come naturale inclinazione dell’uomo, gli antropologi Magnus Enquist e Olof Leimar, dell’Università di Stoccolma, oppongono un’altra verità: la cooperazione è limitata a poche specie mentre negli umani la cooperazione è all’origine del loro successo evolutivo nonostante vi siano sempre stati individui antisociali che cercano di non ricambiare i favori.

L’Homo Sapiens si organizzava in comunità per difendersi dai predatori, e ognuno aveva il suo compito: trovare cibo, tutelare il villaggio, accudire bambini e anziani.

La narrazione di Monbiot si basa sulla restaurazione del bene comune e il recupero dell’accezione di comunità. Un bene pubblico gestito da una comunità, sostiene, non può essere venduto nè dato via. I suoi benefici sono appannaggio di tutti. Da terra di saccheggio, la sfera pubblica deve trasformarsi in fonte di vantaggi collettivi, tutelata e gestita dalle amministrazioni locali. Se le decisioni possono essere prese a livello locale, non c’è ragione per cui si debbano prendere a livello nazionale. In questo modo si innesca una politica di appartenenza che, secondo Monbiot, potrebbe esercitare una forte attrattiva non solo su diverse realtà sociali ma anche sulla politica. Tanto la destra quanto la sinistra, afferma, hanno sempre cercato e coltivato la strategia dell’appartenenza. Sia chiaro però che per appartenenza Monbiot intende la costituzione di una rete di comunità diverse  interconnesse, non di una rete vincolante che riunisca membri di uno stesso gruppo, come avviene, ad esempio, nei regimi dittatoriali. La chiusura ad altre comunità creerebbe infatti quello che Monbiot definisce l’effetto trappola. Per farla breve, ponti e non muri.

Da un’ angolatura architettonica, Massimiliano Fuksas lancia l’ipotesi di un Nuovo Umanesimo. Parla di riappropriazione della casa come luogo abitativo, di lavoro e tempo libero; di un intervento del governo nei piani dell’edilizia per  includere un piano abitativo sociale, uno spazio comune all’interno dei condomini dove ci si possa incontrare, riunire, lavorare, oppure insegnare agli anziani le basi della tecnologia. Elementi che richiamano al concetto di comunità. A questo proposito, Fuksas rivaluta i piccoli centri come luoghi in cui, data una tecnologia moderna e funzionale, è possibile recuperare una dimensione umana e lavorare da remoto in maniera efficiente. Un’idea che richiede un investimento massiccio nella ricerca e nella formazione tecnologica, campo in cui l’Italia è mostruosamente indietro.

Ecco, forse non è la narrazione giusta, magari non è completa, o non è l’unica, oppure non ha un fantastico appeal. Ma è pur sempre una storia su cui cominciare a ragionare. O una storia da raccontare.

 

 

 

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