TEATRO POVERO DI MONTICCHIELLO, UNA MESSA LAICA CHE HA SEMPRE IL SUO PERCHE’

venerdì 26th, luglio 2019 / 11:44
TEATRO POVERO DI MONTICCHIELLO, UNA MESSA LAICA CHE HA SEMPRE IL SUO PERCHE’
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MONTICCHIELLO – Andare ogni anno a vedere lo spettacolo del Teatro Povero di Monticchiello è una sorta di rito. Una messa laica cui è difficile sottrarsi. Perché è in sé una “benedizione” e una esortazione alla speranza. A non perdere la speranza. Un po’ come la Messa in Chiesa, per chi ci crede.  Il teatro Povero di Monticchiello è infatti uno straordinario esperimento sociale e antropologico di resistenza civile e umana.  Una seduta di training autogeno collettiva e allo stesso tempo uno specchio che fa vedere anche a chi non è di Monticchiello, cosa si può fare  per resistere all’avanzare degli anni e dell’età, ma anche alle mode, alle crisi economiche, ai mutamenti sociali che portano allo spopolamento dei luoghi periferici, alla perdita di identità e della memoria, allo “spaesamento”. E anche a cedere alle paure: del nuovo, del diverso, di quelli più periferici e più poveri di te…

Ogni anno, da 53 anni, l’autodramma del Teatro Povero di Monticchiello è una lezione. E la definizione autodramma è assolutamente appropriata. Perché è la rappresentazione del dramma di quella comunità che fa fatica a tirare avanti a resistere e che ha trovato proprio nel teatro se non una soluzione, quantomeno una chiave di lettura e la forza per rimanere al pezzo e non abbandonare il campo.

Lo spettacolo di quest’anno “Stato transitorio” è forse più autodramma di altri precedenti, nel senso che stavolta parte proprio dalle difficoltà a continuare a fare teatro, perché la compagnia invecchia, perché la voglia non è più la stessa, perché non tutti la pensano allo stesso modo e perché alcuni, soprattutto i più giovani hanno anche altro da fare, per esempio andare alle manifestazioni per il clima insieme a Greta Thunberg…

E’ un po’ insistita, forse un po’ lunga, ma efficace la scena iniziale con gli attori che si interrogano, si accusano e si… scusano, men tre montano il palco e preparano i costumi…  Lì c’è tutta l’essenza antropologica e culturale del Teatro Povero. Nella discussione infatti esce fuori chiaramente che senza il teatro non ci sarebbero l’ufficio turistico, la posta, l’asilo, il bar… cioè, senza il teatro, non ci sarebbe più Monticchiello che avrebbe fatto la fine di tanti piccoli borghi medievali e poi contadini, diventati vere e proprie ghost town.

Il confronto/intervista con una giornalista modaiola, venuta dalla città per vedere questo strano fenomeno, diventa uno scontro politico e culturale. Con riferimenti neanche troppo velati al salvinismo dilagante, al disprezzo per una “certa cultura”, all’indifferenza o al fastidio verso la solidarietà…  Peccato che la figura della giornalista, unica figura “fuori contesto” rispetto alla comunità di Monticchiello, quindi corpo estraneo urticante, nella recitazione esca un po’ troppo scolastica. Forse quel personaggio avrebbe meritato uno spessore scenico maggiore. Ma è un dettaglio giusto per cercare il pelo nell’uovo (un ottimo uovo).

Stato transitorio è lo stato dei personaggi e del Teatro Povero stesso, sospesi fra tradizione e mutamenti, tra volontà e necessità di resistere e voglia di andare oltre. O di fermarsi. E’ anche questa volta una riflessione amara, ma serissima, “sul tema delle eredità, delle prosecuzioni, delle continuità e dei necessari cambiamenti”.

In questo senso il cambio di manico, con la regia passata dalle mani di Andrea Cresti a quelle di Manfredi Rutelli e Giampiero Giglioni, il primo un regista di professione romano di origine, ma trapiantato nel territorio da decenni e il secondo già attivo nel Teatro Povero da 15 anni, non ha segnato una rottura. Non ci sono inversioni o cambi di rotta. Tutto secondo il cliché e la tradizione dell’esperienza inventata nel 1967 da Mario Guidotti e Arnaldo Della Giovampaola e poi proseguita per anni da Andrea Cresti.

E se di una esortazione alla speranza si tratta, questa è ben rappresentata dall’intervento in scena di un manipolo di spigliatissimi bambini e ragazzi, ben preparati e orchestrati da Alessandro Manzini, altra risorsa preziosa del teatro nel territorio (collabora con  la Fondazione Orizzonti di Chiusi, lo abbiamo visto in scena come regista in Inferno Srl con gli allievi del suo corso per adulti, e come attore in On the road. Again, allestito al Mascagni il 24 maggio).

Tra i vecchi e solidali contadini che ti portavano un sacco del loro grano se il tuo pagliaio andava a fuoco e quei bambini di oggi, preoccupati per i cambiamenti climatici e per il buco dell’ozono, c’è un abisso. E’ difficile capire le preoccupazioni dei ragazzi di oggi anche per i loro genitori, che sono i nipoti di quei contadini… Ma c’è anche un filo rosso che unisce gli uni agli altri. E’ la terra e la sua storia. E  la memoria, perché anche quei contadini sgrammaticati e un po’ rozzi sono stati bambini. E da bambini dovettero mettersi in marcia, dall’assolata Valdorcia fino a Montepulciano per scampare ai bombardamenti nell’estate del ’44. Li raccolse e li guidò una marchesa inglese, illuminata e progressista,  che diede una mano alla resistenza.

Nel 1924 aveva sposato  il figlio illegittimo di un nobile chiancianese e con lui aveva scelto di vivere in Valdorcia. Era una scrittrice, che ha raccontato magistralmente in un suo libro quella storia. Si chiamava Iris Cutting Origo. Il Teatro Povero quest’anno le ha reso omaggio con una citazione. E anche questa è una bella cosa. Come è bello, dopo lo spettacolo, fermarsi a fare due chiacchiere con gli abitanti/attori in quella piazza con il pozzo che sembra un’agorà… Una di loro, Tamara, ci racconta di come ha cominciato 9 anni fa a fare teatro (per superare il lutto per la perdita del marito) e un altro, Nagis, ci parla del teatro, del paese, dell’Anpi, del cielo stellato e ci offre pure un caffè. E’ bello parlarci, perché parlano anche un italiano quasi perfetto.  Scusate se è poco.

Marco Lorenzoni

 

 

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