HO VISTO UN FILM: CI SIAMO DENTRO TUTTI NOI E I NOSTRI PAESI IN QUEL PUB DI KEN LOACH
Ieri sono andato a vedere “The old Oak” di Ken Loach. Al nuovo Cinema Caporali di Castiglione del Lago. Dal mio punto di vista quando vado a vedere un film di Ken Loach so di andare sul sicuro. Mi ci sento in sintonia. Anche quando propone temi che fanno male allo stomaco. E allora dico subito che io “The old Oak” lo metterei come materia obbligatoria nelle scuole. Anche le Medie. E lo farei vedere, per legge, in tutti i Consigli Comunali. E anche nelle sezioni e circoli di partito, nelle associazioni di volontariato. Parla di un tema caldo. Anche qui da noi. Parla delle migrazioni forzate da situazioni di guerra, nel caso specifico la Siria. E dell’accoglienza dei profughi in Europa. Nel caso specifico di una cittadina dell’Ighilterra del nord, sponda occidentale. Ma parla anche di altro: delle guerre tra poveri, dei poveri che hanno paura non dei ricchi e del potere, ma di chi è più povero di loro. Parla della desertificazione industriale, commerciale e civile di città e paesi dopo la crisi del 2008 e la fine di un modello ecomomico. Lo farei vedere per legge, The old Oak, soprattutto in territori come i nostri, perché il film parla anche di noi. Ken Loach il film lo ha ambientato in cittadina mineraria grigia come il fumo dove non c’è più niente, tranne una splendida cattedrale. neanche la miniera c’è più. Si chiama Durham quella cittadina. Ma potrebbe essere benissimo Chiusi. O Sinalunga. O Magione… Nella Durham del film c’è rimasto un solo pub, non c’è più nemmeno una sala per fare un’assemblea pubblica, ha chiuso anche quella parrocchiale. La gente che un tempo era combattiva, solidale, sindacalizzata e faceva scioperi memorabili, non combatte più. I pensionati si ritrovano al pub a scolare pinte di birra, ma appena vedono arrivare un pullman con 50 profughi siriani che si stabiliranno lì, imprecano, li vedono come una minaccia, capiscono le loro ragioni, ma dicono che sono troppi, che non si possono accogliere tutti, che dovrebbero tornare a casa loro (anche se una casa loro non ce l’hanno più). Non sopportano che “i beduini” vengano aiutati con sussidi e con la solidarietà dei sindacati, delle parrocchie, mentre a loro e ai loro figli nessuno li aiuta. Discorsi che abbiamo sentito anche a Chiusi, a Chianciano, a Piazze, dovuque sia stato aperto un centro di accoglienza e dove siano stati alloggiati profughi siriani, nordafricani o pakistani… Stessi discorsi, identici.
E anche qui da noi – tranne le poche realtà che se la cavano con il turismo – il contesto è desertificato, con la gente che non socializza, che non esce più nemmeno di casa per paura dei nuovi arrivati…
Il film di Ken Loach fa intravedere una possibilità, che alla fine è banale ed è quella di riappropriarsi di un motto dei minatori in sciopero: “quando si mangia insieme si rimane uniti” e allora in pochi ci provano di nuovo. Mangiare insieme, tornare a fare comunità, quelli del posto e i nuovi arrivati. Non come atto di “carità”, ma come atto di resistenza rispetto alla devastazioni del capitalismo feroce, delle guerre, della globalizzazione a vantaggio dei più ricchi. Lì per lì funziona. La comunità si ritrova, una dei siriani scatta fotografie, per strada, nei luoghi di lavoro, dalla parrucchiera, anche quelle foto servono a creare un legame, ma le paure, la diffidenza, l’egoismo indotto da anni durisssimi hanno il sopravvento, qualcuno boicotta l’iniziativa, addirittura mette in atto un’azione di sabotaggio facendo saltare le tubature (precarie) e l’impianto elettrico della sala del pub riadattata a luogo comunitario e mensa sociale gratuita per tutti quelli che ne hanno bisogno. Autoctoni e immigrati. Sembra la fine del sogno di un risveglio di coscienza civile e di classe. Ci vuole il sangue di un martire, il padre della fotografa ucciso in carcere in Siria dal regime di Assad, per rimettere in fila e al posto giusto i tasselli di una storia e di tante vite. “Forza, Solidarietà, Resistenza”, così i siriani scrivono in uno stendardo che regalano alla comunità di Durham. Anche i sabotatori impauriti e arrabbiati con i beduini, tornano ad essere quelli di prima, quando erano minatori uniti e solidali. Qui il film forse è un po’ didascalico. E forse anche troppo ottimista. Ma è un bel film. Quasi un documentario su un problema attuale. Chi mugugna e bofonchia di sostituzione etnica, lo vada a vedere e prenda nota. Tante volte su queste colonne abbiamo paragonato alcuni nostri paesi alle mining town americane e inglesi che una volta esaurita o abbandonata la miniera hanno subito un tracollo inimmaginabile con la chiusura di aziende, uffici, negozi, perfino delle banche e dei bar, perdita di appeal e di identità. A Chianciano per esempio la miniera erano le terme, a Chiusi la stazione. Cosa è successo negli ultimi 15-20 anni? Anche a Chiusi, come a Durham c’è rimasta solo una splendida cattedrale e poco più.
Ci siamo dentro tutti noi in quel pub di Durham. Che potrebbe essere benissimo un pub di Chiusi. Se ci fosse.
Marco Lorenzoni
Nella foto: una scena del film (fonte huffingtonpost.it)
In effetti, almeno lì hanno un pub, qui nemmeno quello. Il problema della “desertificazione” civile e sociale è preoccupante e da tempo pare inarrestabile, in quanto la vita della pressochè totalità delle nazioni si sta polarizzando attorno alle metropoli, o comunque città, e intere porzioni di territorio vengono abbandonate a sè stesse. Non c’è bacino d’ utenza? E allora chiudiamo le scuole. Chiudiamo il distretto sanitario. Togliamo la stazione. Chiudiamo lo sportello della banca. E così via. Il tutto sotto il silenzio della politica, che sia di destra o di sinistra, in quanto il gioco è funzionale agli interessi dei vari potentati. In un simile contesto, non deve sorprendere la reazione negativa degli abitanti del posto nei confronti dei “nuovi arrivati” : è troppo facile e immediato pensare “Ma come, qui ci tolgono tutto, non abbiamo più quasi niente, e ci mandano pure questi qui con cui dobbiamo condividere il pochissimo che abbiamo. Li mandino a Londra, a Manchester, dove c’è l’ opulenza”. Così come a noi vien da pensare “li mandino a Milano o almeno a Firenze”.
Il problema non è che sono neri, o siriani, o pakistani, ma che costituiscono un fardello di cui farsi carico, soprattutto agli occhi di chi ha poco ormai per sè, figuriamoci per fare solidarietà e beneficienza. Per l’ appunto, guerre tra poveri, che possono essere evitate solamente contrastando in maniera efficace la povertà.
Senza gli immigrati e i loro figli, le scuole le avremmo già chiuse da un pezzo…
E’ solo questione di tempo, nemmeno più gli stranieri fanno figli.
Beh, avremmo una “ricetta” anche in Italia. Una ricetta che un ministro (che ha tutto l’interesse a soffiare sulla guerra tra poveri) ha cercato di inquinare con l’intimidazione legale. E’ l’esperienza di Mimmo Lucano, denigrata e offesa perché funzionava. E funzionava in un ambiente degradato, non industrializzato, mostrando come possibile una convivenza che avrebbe sparigliato le carte di chi, sulla paura e sui centri di accoglienza (e relativi finanziamenti) ci lucra e ci specula.