CHIUSI, CITTA’ DELLA PIEVE, MONTEPULCIANO, FABRO… QUANDO LA STORIA VA IN FRANTUMI
Quando la storia cade letteralmente a pezzi. Sì, perché certi palazzi, certi edifici, sono tasselli di storia. A volte di storie importanti. Due mesi fa, a Chiusi Scalo venne giù una porzione dell’ala dell’aquila che sovrasta un palazzo razionalista in piazza Matteotti (il palazzo dove c’è la filiale dell’Unicredit). Un manufatto del 1920 – c’è scritto sotto – che era non un simbolo del regime fascista, come qualcuno pensa, ma semplicemente il “logo” di una officina meccanica, l’Officina Mori, una delle primissime aperte nella zona. Nel 1920 le automobili non erano numerosissime e quell’officina riparava soprattutto autobus e altri mezzi di trasporto. Rarissimi anche quelli.
Il crollo abvvenne il 14 settembre. Adesso l’aquila mutilata è stata “incartata” e così messa in sicurezza. Per quasi due mesi il marciapiede sottostante, con acceso a una banca e fermata del bus, è rimasto transennato. Adesso le transenne sono state tolte.
Pochi metri più avanti, verso piazza Dante, all’angolo tra via Leonardo da Vinci e via Isonzo, sono caduti pezzi dei fregi che abbelliscono i sostegni di alcune terrazze, in un altro edificio storico, tra i più belli della stazione (intesa come Chiusi Scalo). Lì si è provveduto ad eliminare le parti ammalorate e pericolanti, ma il lavoro è rimasto a metà e sul marciapiede ci sono le transenne, che nel cuore dell’abitato e della via dello shopping, non sono un bel biglietto da visita. Come non lo sono le terrazze “scarnificate”.
Certi interventi andrebbero fatti forse con maggiore solerzia, per non lasciare incancrenire la situazione e fare l’abitudine al brutto. Parliamo, nei due casi citati, di edifici privati, anche se gli interventi di “primo soccorso”, diciamo così, sono stati effettuati dal pubblico. E c’è chi si chiede come andrà a finire e chi pagherà il ripristino, se i privati proprietari non lo faranno.
Ma la storia non cade a pezzi solo a Chiusi. A Città della Pieve, nei giorni scorsi è caduta una una porzione di cornicione del Palazzo Fargna, quello dove ha sede il Comune. Lato via Garibaldi. Anche lì e sulla piazza antistante lo splendido edificio settecentesco in stile barocco, le solite transenne.
A Montepulciano, un anno e mezzo fa è venuta giù una grossa porzione delle mura di Collazzi, cioè della cinta muraria storica della città. Che non è una città qualunque , ma la “Perla del ‘500”. Esempio tra più rilevanti di città rinascimentale. Ne abbiamo scritto abbondantemente.
Del ponte a nove luci sull’Orcia crollato nel 2012 e di altri pericolanti, con conseguenti difficiltà per la circolazione in una delle zone più belle, celebrate e fotografate d’Italia, abbiamo scritto proprio ieri…
E’ annosa anche la questione dei cedimenti del castello di Fabro oggetto di numerise interrogazioni e richieste di intervento da parte dell’opposizione consiliare: il 27 ottobre scorso, proprio in seguito all’ultima di queste interrogazioni (del 17 ttobre) è stato effettuato un sopralluogo “con Ingegnere del Servizio Rischio sismico e programmazione interventi sul rischio idrogeologico e Geologo del Servizio Rischio idrogeologico, idraulico e sismico, Difesa del suolo della Regione”. Il castello di Fabro è più antico sia dei palazzi chiusini citati, sia dello stesso Palazzo Fargna di Città della Pieve. Fu costruito intorno all’anno Mille e profondamente ristrutturato alla metà del ‘500 dai Bandini di Città della Pieve su disegno di Antonio da Sangallo il Giovane che tra il 1527 e il 1533 era impegnato in zona nella costruzione del Pozzo di San Patrizio ad Orvieto e in uno dei numerosi tentativi di bonifica della Val di Chiana. Grazie a questo intervento fu dotato del torrione e delle mura tutt’ora esistenti e che purtroppo mostrano le “ingiurie del tempo” e numerosi cenni di cedimentO. Ovviamente transenne anche a Fabro.
“Finché durano le transenne e il nastro bianco e rosso, non si trema”, scrivemmo tanti anni fa su Primapagima cartaceo, in occasione di altri crolli e cedimenti…
Il castello di Fabro e Palazzo Fargna sono due edifici di rilevanza storica notevole. Lo stesso dicasi per le mura di Collazzi a Montepulciano e anche per il Ponte sull’Orcia, tutti manufatti di proprietà pubblica.
I due edifici di Chiusi Scalo, sono invece, come dicevamo, privati e sono meno antichi e rilevanti, ma rappresentano una testimonianza degli anni d’oro della cittadina nata e cresciuta intorno alla stazione ferroviaria. Entrambi sono degli anni ’20-’30 del ‘900 ed entrambi evidenziano uno stile architettonico da città, non da paesello, perché Chiusi Scalo sia prima della guerra (la seconda guerra mondiale) che dopo ha avuto periodi di grande vitalità economica e sociale, e anche le costruzioni del centro – il primo nucleo abitativo e commerciale – ne sono in larga misura la fotografia. E’ un peccato che se ne vadano in malora anche alcuni manufatti di competenza FS, costruiti in stile razionalista tra gli anni ’30 e il dopoguerra, come la “torre di controllo” adiacente al vecchio passaggio a livello e all’ex dormitorio e la sua “gemella” che si trova davanti allo stadio.
E stendiamo un velo pietoso sulla ex fornace di via Oslavia, ormai quasi del tutto crollata e ridotta a rudere sommerso da rovi e vegetazione varia, regno incontrastato di cinghiali, volpi, topi grossi come i gatti e piccioni.
Quando la storia va in frantumi, dovunque ciò accada, è un colpo duro, durissimo, non solo alla memoria, ma anche all’immagine stessa dei luoghi in cui il fatto avviene. In tutti i casi, sia quelli afferenti a edifici pubblici, che quelli afferenti a edifici privati, crolli, cedimenti, sgretolamenti e crepe, rappresentano in primo luogo un problema di sicurezza per chi vi passa aaccanto, poi anche un problema di decoro urbano e quindi di immagine della città. In ultima analisi anche un problema di equità, tra i cittadini comuni che tengono in ordine il proprio patrimonio edilizio e chi invece non lo fa, mettendo pure a rischio l’incolumità delle persone.
E’ chiaro che quando si parla di edifici o manufatti storici, in qualche caso plurisecolari, può succedere che si verifichino dei problemi, dei cedimenti. E certe cose possono accadere anche ad edifici e manufatti più recenti, ma comunque ormai centenari o quasi. E’ nell’ordine delle cose. L’importante è che chi di dovere – sia pubblico o privato – intervenga tempestivamente e non si limiti a piazzare due transenne con il nastro bianco e rosso o un semaforo per regolare il transito. Questo purtroppo non sempre avviene e talvolta le transenne rimangono lì per mesi, anche anni, si arrugginiscono e il nastro scolorito dalle intemperie svolazza e al massimo tiene lontani passeri e piccioni.
M.L.
Non solo i fregi esterni dei palazzi storici si distaccano a causa dell’opera continua del tempo ma crollano anche le strutture interne degli edifici pubblici.Proprio a Palazzo Fargna- dal momento che è stato menzionato- in Città della Pieve nel 1959 crollò un solaio uccidendo una bambina di 4-5 anni-cosa questa che oggi pochi se ne ricordano- e ferendo molte persone della famiglia del Vicesindaco Bacci. Mi ricordo di questo fatto perchè fra gli altri che furono indagati c’era anche il Sindaco che al tempo era mio zio Solismo Sacco che poi fu riconosciuto estraneo alla vicenda come anche altri prosciolti dalle responsablità.Mi sembra se non vado errato che il crollo del solaio fu dovuto ad una canna fumaria il cui calore aveva consumato nel tempo una trave che contribuiva a sostenere lo stesso solaio crollato.Dico questo poichè nel mio archivio ho da qualche parte anche la risoluzione del tribunale che aveva conservato mio zio sull’accaduto.A conferma dell’attenzione e della responsabilità che oggi manca nei confronti di quella che era d’uso comune il porre in essere da parte della Pubblica Aministrazione, a Chiusi Scalo fu per sicurezza tolta dalla sommità di Palazzo Pianigiani in Via Mazzini la statua che figurava sulla sommità del tetto che si poteva notare in tutte le fotografie dell’epoca e che rapprentava ” l’ingegnosità dell’Industria”. Fu proprio un violento terremoto accaduto negli anni ’30 che indusse i proprietari dell’immobile a togliere quella ”dea” che aveva di lato ai piedi una ruota alata simboleggiante il genio costruttivo ed ingegneristico dell’uomo.Questo per dire che a differenza da oggi che si attende che le strutture cadano da sole per poi quasi sempre non ripristinarle più, all’epoca il gusto del bello era insito nelle persone e il fatto del loro ripristino veniva vissuto come un dovere,quasi compreso dentro un etica sociale che contribuiva ad abbellire un paese.Tutto questo oggi si è perso poichè è cambiato anche un ”modus ragionandi”indotto da un sistema di produzione che privilegia l’immediatezza del profitto nei confronti della considerazione che un opera possa durare nel tempo e possa servire anch’essa alle generazioni future.Un motivo in più da aggiungere al detrimento dell’etica del vivere odierna per la quale si recita che chi si dimentichi del proprio passato non abbia sicuramente futuro.
Per risolvere in maniera efficace il problema del degrado del patrimonio edilizio, gli strumenti giuridici esistono, ma serve da parte di chi di dovere la volontà ferrea di farli valere : vero è che in molti casi gli edifici oggetto di dissesto sono di proprietà privata, ma laddove si verifichino situazioni che mettono a repentaglio la sicurezza pubblica, il problema non è più privato. Ritengo opportuno, premesso ciò, spendere ancora due parole sulla ex fornace, sebbene su queste colonne se ne sia già scritto molto. Per addivenire a una soluzione non dico perfetta, ma quantomeno dignitosa,servirebbe realismo e pragmatismo da parte di tutti. Io la storia la seguo da un po’ perché la mia società era interessata ad un’ iniziativa immobiliare di riqualificazione generale, ma si è scontrata con due ostacoli. Da un lato, la valutazione da parte dell’ attuale proprietà che non sta ne’ in cielo ne’ in terra, dall’ altra una pianificazione urbanistica da parte delle precedenti amministrazioni a dir poco folle, delirante : qualcosa come 80 appartamenti in un paese che tra 10 anni scenderà a 5000 abitanti, e come non bastasse, la realizzazione di una specie di museo di architettura industriale e spazi per non meglio precisate attività culturali. Con tanto di restauro della ciminiera. Il tutto a carico del promotore, che in pratica dovrebbe fare beneficenza. Con tutto il rispetto, il soggetto , o i soggetti, che hanno avuto simili idee, si è bevuto il cervello.
Però è certo anche che Chiusi Scalo essendo un agglomerato urbano recente, nato intorno ad una stazione ferroviaria, con caratteristiche di città (abbastanza rare, se non uniche, tra i paesi della zona di simili dimensioni) non può prescindere dalla manutenzione e dal decoro degli edifici “storici”, cioè quelli che sono testimonianza della sua storia, che non è medievale o rinascimentale, ma è una storia di polo industriale e commerciale e snodo di trasporti. La storia recente non vale meno di quella antica. Sempre storia è. E per questo va ugualmente salvaguardata e tutelata. Il privato può anche essere disattento o indifferente. Il pubblico no. E se necessario deve indurre il privato a intervenire, almeno per evitare problemi di sicurezza, di decoro e di immagine della città. L’aquila dell’Officina Mori, il Palazzo Pianigiani citato da Carlo Sacco, la vecchia Fornace ormai crollata, il “Molino a cilindri” in via Cassia Aurelia, le torrette delle Fs e i palazzi in stile razionalista, la stessa stazione ferroviaria disegnata dall’architetto Mazzoni, con tutte le sue pertinenze, i palazzi del centro cittadino, i tombini con scritto “Officine fonderie Chiusi”, hanno valore documentario, storico e civile, sono fotografie di ciò che era Chiusi Scalo. Mandarli in malora senza intervenire è esattamente la stessa cosa che mandare in malora le tombe etrusche o i resti romani e longobardi.
È quello che ho sostenuto in premessa. Vuoi conservare una testimonianza di architettura industriale, quale la ciminiera della ex fornace? E sia, ma “tu” pubblico partecipi alle spese, altrimenti io promotore privato dico “no grazie”, e l’ area resta ostaggio di erbacce, topi, gatti e cinghiali. Per il pubblico, indurre il privato a intervenire, significa anche, e direi soprattutto, metterci i denari e la faccia. Il tutto per addivenire a soluzioni credibili : se io mi presento e ti dico “qui intendo fare questo”, e tu mi liquidi dicendo “qui ho previsto quest’ altro” (che per ovvii motivi non sta in piedi), poi non ti lamentare se nessuno fa niente e il degrado regna indisturbato.
Comunque, non avertene a male, ma assimilare certi manufatti alle tombe etrusche appare se non una bestemmia quantomeno una forzatura.
Ogni epoca ha la sua storia e le sue vestigia. Un dipinto di Picasso o di Modigliani vale meno di uno di Giotto o di di una pittura etrusca? Per quale motivo la “scimmia” dipinta della omonima tomba chiusina dovrebbe valere di più della ciminiera della fornace o di un vecchio mulino? Perché è più antica? Non mi pare un motivo sufficiente. Io pur non amando certo il periodo fascista, sono per la tutela dgli edifici razionalisti costruiti nel ventennio, e a Chiusi ce ne sono tanti, perché rappresentano quell’epoca. E la storia no si cancella.
Sì capisco e per certi versi sono anche d’ accordo, ma tale constatazione avvalora ulteriormente il mio ragionamento. Delle due l’ una, o te comune ritieni la ciminiera della ex fornace un monumento degno di tutela e allora ci metti i soldi come se fosse la tomba della pellegrina, oppure ritieni che non vale niente e mi permetti di raderla al suolo. E invece ti ostini a volere la botte piena e la moglie ubriaca, cioè vuoi restaurare la ciminiera, e non solo, ma che me ne faccia carico io. Non serve una laurea in economia o ingegneria per capire che non regge, e infatti sta là così.
Il Comune (o comuqnue il pubblico) deve intervenire supportando anche finanziariamente e con gli adempimenti necessari il privato laddove richiede o impone operazioni di tutela e salvaguardia per ragioni storico-culturali o per interesse pubblico (come potrebbe essere il caso della ciminiera della Fornace), altra cosa sono gli interventi per la messa in sicurezza di edifici privati che cadono a pezzi o rappresentano un biglietto da visita penalizzante per la città (come nel caso dell’aquila del 1920 in piazza Matteotti). Lì l’intervento è e deve essere a carico del proprietario.
Sì ovvio, parliamo di situazioni completamente differenti. Un conto è un mini crollo in centro abitato che interessa una pertinenza privata, ben altro conto è una riqualificazione urbana di un’ area industriale dismessa di superficie rilevante per un agglomerato delle dimensioni del nostro comune.