CHIUSI, UNA MOSTRA SUGLI AMERICANI ARMATI FINO AI DENTI. MA E’ UNA COSA NORMALE?

domenica 04th, giugno 2023 / 11:58
CHIUSI, UNA MOSTRA SUGLI AMERICANI ARMATI FINO AI DENTI. MA E’ UNA COSA NORMALE?
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CHIUSI – Da un paio di settimane nel centro storico di Chiusi campeggiano qua e là delle grandi fotografie, in cui si vedono persone, uomini e donne, di pelle bianca e di pelle più scura che “giocano” con armi da guerra. Molte, moltissime armi da guerra: pistole, fucili mitragliatori, Ak47, mitragliette, perfino bazooka. E’ una mostra fotografica diffusa. La quarta allestina da un anno a questa parte dal Fotoclub I Flashati di Chiusi, con il patrocinio del Comune. Le altre tre riguardavano una la vita dei miliziani del battaglione Azov nel bunker di Azovstal a Mariupol (e fece molto discutere), una le discriminazioni e le difficoltà degli “albini” in Africa e una la transizione ecologica. Quella in corso si intitola “The Ameriguns” ed è  un documentario, per immagini,  che accende i riflettori sul femomeno del possesso di armi, anche da guerra, molto in voga tra i cittadini americani. L’autore degli scatti èun fotografo piuttosto noto e pluripremiato:  Gabriele Galimberti.

“Di tutte le armi da fuoco al mondo possedute da privati cittadini per scopi non militari, la metà si trova negli Stati Uniti d’America. In numero superano la popolazione del paese: 393 milioni di armi per 372 milioni di persone. Non è una coincidenza, né una questione di mercato: è piuttosto una questione di tradizione e di garanzia costituzionale. È la storia del Secondo Emendamento, ratificato nel 1791 per rassicurare gli abitanti dei nuovi territori indipendenti che il loro governo federale non potrà un giorno abusare della sua autorità su di loro. Duecentocinquanta anni dopo, il Secondo Emendamento è ancora radicato in tutti gli aspetti della vita americana e questo libro inquadra il suo stato attuale attraverso quelli che sono visti come quattro valori fondamentali americani: Famiglia, Libertà, Passione, Stile.
Il fotografo ha viaggiato in ogni angolo degli Stati Uniti, da New York City a Honolulu, per incontrare orgogliosi possessori di armi e per vedere le loro collezioni di armi da fuoco. Ha fotografato persone e pistole nelle loro case e nei loro quartieri, anche in luoghi dove nessuno si aspetterebbe di trovare tali collezioni. Questi ritratti, spesso inquietanti, insieme alle storie che accompagnano i proprietari e le loro armi da fuoco, basati su interviste, forniscono una visione inaspettata e non comune di ciò che oggi è realmente rappresentato dall’istituzione del Secondo Emendamento”.  Così si legge nella presentazone della mostra. Con la postilla che nel 2021 con il Progetto The Ameriguns, Galimberti ha vinto il primo premio della categoria ritratti del World Press Photo, il più importante premio di fotogiornalismo al mondo. E in effetti le foto che ha scattato rendono bene la portata del fenomeno e l’orgoglio con cui molti americani ostentano le armi che posseggono… Non si dice però nella presentazone che negli Usa ogni anno oltre 30.000 persone rimangono uccise dalle armi da fuoco, una media di trenta vittime al giorno. La metà sono giovani (tra i 18 e i 35 anni), un terzo sono giovanissimi (sotto i 20 anni). Le stragi compiute da squilibrati, da persone incattivite da qualche torto subito, nei supermercati, nelle scuole, nelle chiese, durante iniziative pubbliche sono decine ogni anno.
In questo senso la mostra allestita a Chiusi è interessante, ma lacunosa. Ogni foto ha una “spiegazione” a lato. Ma si tratta di spiegazioni che non spiegano tutto. Anzi, spiegano poco. E appaiono parziali. Si avverte un filo di disappuntoda parte dell’autore. Ma giusto un filo, molto labile, quasi impercettibile. Non c’è in nessuna foto, una presa di distanze netta, una chiara espressione di disapprovazione per un fenomeno non solo inquietante (gli Usa nel 2023 sono ancora il Far West di Wild Bill Hickock e più simili a Gotham City che a una grande nazione democratica), ma anche molto pericoloso, che è una delle principali cause di morte tra i gli americani.
In una delle foto la didascalia riporta il pensiero di una giovane ritratta in una vasca da bagno con una decina di armi da fuoco posate sul bordo: “Latoya è cresciuta nell’uffico dello sceriffo  dove lavorava il padre, aveva 11 anni quando lui le ha insegnato a sparare,a 20 si è ritrovata in Iraq come membro dell’esercito. Oggi, da veretana, pensa anche che non debbano esserci differenze tra persone comuni e militari: “non ci sono armi che devono essere vietate all’acquisto dei cittadini, tutto quello che ha l’esercito deve poterlo avere il cittadino”.
Pubblicare una frase così, senza commenti, senza prendere le distanze da un pensiero aberrante è come mettere in mostra i soldati del Battaglione Azov senza dire che cosa è il Battaglione Azov. E in questo caso  non c’è neanche l’alibi (fasullo) della resistenza all’invasore.
In un’altra didascalia, a fianco della foto di una certa Avery Skypalls si legge.“Non avevo mai sparato prima, ma ho amato il mio fucile fin dal primo istante, mi ha fatto sentire perfettamente in controllo della situazione e da allora non ho mai smesso di sentirmi così”.  Avery, si legge ancora, adesso “tiene corsi di sicurezza sulle armi ad adulti e bambini (sì bambini, c’è scritto così), i primi adaverli frequetati sono i sui figli di 10 e13 anni cui ha insegnato a maneggiare le pistole quando ne avevano 5 e 7…“. Anche qui nessun commento, nessuna chiosa, nessun cenno di critica.
Come nei casi delle mostre precedenti noi siamo favorevoli a mostrare qualunque tipo di immagine e a parlare di tutto ciò che faccia compredere la realtà. O, come in questo caso, fenomeni diffusi.  Però riteniamo che le cose vadano accompagnate da una spiegazione chiara, in modo che anche il messaggio che le immagini in mostra trasmettono sia chiaro. Se il fenomeno è negativo, aberrante, pericoloso, va detto che è negativo, aberrante e pericoloso. Se non si dice, il rischio è che chi osserva pensi il contario. Cioè che per i promotori della mostra e per il Comune che la patrocina, sia un messaggio edificante o comunque non esecrabile.
Limitarsi a quel filo leggero leggero di disapprovazione che si avverte (molto debolmente) nei testi dell’autore, ci sembra un po’ troppo poco. Anche perché la mostra in questione è diffusa per la città, libera e gratuita, si vede anche non volendo. Non presuppone un biglietto, o l’ingresso in un luogo chiuso che è già una scelta.
I Flashati sono una associazione privata e possono legittimamente proporre ciò che vogliono e come vogliono. Il fotografo può fermarsi lì, alla foto documento. Il Comune no. Il Comune, un comune che si dichiara di sinistra, non può patrocinare una cosa del genere senza dire e sottolineare in maniera visibile e chiara che i soggetti ritratti nelle foto sono dei pazzi furiosi e che il fenomeno delle armi da guerra in casa dei semplici cittadini non può essere accettato come una fatto normale. Perché non è normale detenere decine di mitragliatori e farsene vanto, come fossero preziosi oggetti di porcellana.
Possibile che non ci si renda conto di questo e che solo a noi venga spontaneo ragionare sul messaggio che emerge da quelle foto affisse sui  muri del centro storico?
Eppure, pur non essendoci  a Chiusi folle oceaniche di turisti e di gente per strada qualcuno quelle foto le avrà viste. Ci si può fermare agli aspetti formali e alla bravura del fotografo?
C’è stata il 20 maggio una presentazione, presente l’autore, ma anche quella non basta a spiegare, perché chi vede quelle foto oggi, domani o tra un mese non sa, non può sapere, cosa è stato detto alla presentazione. E il problema, lo abbiamo già detto, riguarda non tanto l’autore e i promotori (i Flashati), quanto piuttosto il Comune, che in quanto Comune-casa di tutti ed istituzione democratica rappresentativa, può patrocinare la mostra, ma non può farlo acriticamente senza che la presa di distanze dai soggetti ritratti e dalla loro filosofia emerga chiaramente. E sia percepibile anche da parte di chi non ha assistito alla presentazione.  Bastavano due righe, sempre le stesse, in fondo ad ogni didascalia.
m.l.
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