CHIUSI: LA SCOMPARSA DI “ANTONELLO”, ARTIGIANO D’ALTRI TEMPI
CHIUSI – C’erano una volta gli artigiani. Quelli veri, dei mestieri antichi. Quelli che stavano dentro i centri storici e nelle strade di paese, non ancora nelle zone produttive e commerciali: sarti, falegnami, fabbri, tappezzieri, meccanici (anche di biciclette), barbieri, orafi, fotografi, tipografi… A Chiusi per esempio ce n’erano tanti, sia nel centro storico che alla Stazione. C’erano strade che erano zone artigianali ante litteram, con un bottega dopo l’altra. Spesso anche dello stesso tipo… Via Piave e via Montegrappa, per esempio, due fra le strade più vecchie di Chiusi Scalo, abitate e popolate per lo più appunto da artigiani. Antonio Del Buono, per tutti “Antonello”era uno di loro. Faceva il tipografo in via Montegrappa. E come tutti i tipografi di antica tradizione, era un tipo particolare, a suo modo un intellettuale, non solo perché lavorava con le parole e la stampa, ma anche perché amava il teatro, per esempio. E tutte le cose di paese.
Ha calcato il palcosecenico quando ancora lo facevano in pochi, negli anni ’50 e ’60, con la Filodrammatica locale e poi ha trasferito quella sua passione per la scena, nella sfilata i costume dei Ruzzi della Conca. Lo abbiamo visto sfilare, spesso con la moglie Milvia accanto o nei paraggi, vestito da notabile (FOTO), da sindaco, da capostazione e pure da prete… Ma ha anche curato (stampato e basta è forse riduttivo) tante pubblicazioni, tanti libri di memorie locali. Ha stampato per decenni il periodico “Montepiesi” di Sarteano. Noi di primapagina non ci abbiamo mai stampato il giornale, perché serviva un altro genere di tipografia, ma tanti supplementi sì. Con “Antonello” che se ne è andato alla soglia dei 90 anni, una settimana fa, ci abbiamo lavorato parecchio. Eravamo amici. Sodali, verrebbe da dire. Ci siamo scambiati informazioni, piccoli segreti del mestiere, ma anche risme di carta, pellicole e quant’altro potesse essere utile a stampare una qualsiasi pubblicazione, fosse un calendario, un libro, un supplemento una tantum al giornale… Dalla metà dell’800 a tutto il ‘900 i tipografi sono sempre stati per tradizione socialisteggianti… Antonello era cattolico, ma laicissimo nei ragionamenti e nell’atteggiamento verso il prossimo, verso la politica anche.
Un personaggio d’altri tempi, già ai suoi tempi, ma anche un artigiano meticoloso con delle mani enormi , un cittadino attento alle cose del mondo e del paese. Di poche, pochissime, parole e l’occhio lungo.
Dietro quegli occhiali spessi e lo spolverino nero sembrava serioso e un po’ triste, ma non lo era. Come tutti i tipografi d’antan, sapeva lavorare bene con le parole, i silenzi e gli spazi. Così come spalmava l’inchiostro sulle macchine, sapeva dare pennellate d’ironia. Ti prendeva per il culo senza farsi accorgere. Di artigiani così, purtroppo ne son rimasti pochi. Ci mancherà Antonello…
m.l.
Grazie Marco per la Chiiusi che ci ricordi.L’ho vissuta anche io.
Bravo Marco, bella frase, “Come tutti i tipografi, sapeva lavorare bene con gli spazi”, quanto mai vera, che segna uno spartiacque che non sarà mai più colmabile tra chi i giornali li ha fatti con i tipografi e chi davanti ad uno schermo del pc. E non c’è nulla di nostalgico, visto quanto è più pratico oggi, sono solo due modi diversi di ottenere lo stesso prodotto. Che poi tra giornalisti e tipografi si stabilisce un rapporto di complicità è altrettanto vero. Frequentando quei locali, spesso bui, sempre fumosi, ho rubato conoscenze che tuttora mi fanno comodo. E non dimenticherò mai quel linotipista che, mentre per 14 ore al giorno respirava le esalazioni del piombo, ci metteva sopra voluttuose aspirate di Nazionali senza filtro. Giornalisti-giornalai-tipografi era un terzetto formidabile e solidissimo.
L’ho conosciuto attraverso l’amicizia con Bruno e Flavia, i suoi figli. L’hai descritto molto bene: l’aspetto serio, tendente un po’ sul triste, nascondeva un’ironia talvolta pungente ma anche cordialissima. Capace di essere autoironico, segno di grande intelligenza, sapeva insegnarti senza dartelo a vedere, con un sorriso di complicità. Una bellissima persona
Ho letto con intensa emozione questo articolo. Il Signor Antonello Del Buono mi stampò la tesi di laurea “Tecniche di produzione e di vendita della Dalmine Spa” che discussi alla facoltà di Economia e Commercio all’Università di Perugia il 5 luglio del 1971, quasi cinquant’anni del tempo che fu!
Un vero gentiluomo, con un tratto pervaso di squisita sensibilità e naturale eleganza. Requiescat in pace.
Grazie e sinceri complimenti per il vostro articolo. Vi leggo spesso. Nel divenire della vita, Chiusi è rimasta sempre nel cuore. Cordialissimi e stimati saluti.
Orazio Musmeci- Docente in pensione-Bologna
Davvero gli artigiani di una volta, quelli dalle mani d’oro, sono andati quasi tutti persi. Ne rimangono pochissimi e oramai piuttosto avanti con l’età. Eppure erano memorie storiche, imparare a fare quei lavori, valeva come un bel diploma. Ne ho conosciuti diversi pure io, chi non ricorda Tilli, il tipografo di via Bartolo, nel cuore del centro storico di Perugia. Un vecchio anarchico, lo conobbi molti anni fa, quando si facevano le manifestazioni studentesche. Poi alcuni anni fa conobbi un ebanista, abitava nella frazione Piccione di Perugia. Tanto per far capire lo spessore del suo sapere storico e professionale, tra i suoi clienti la Regina d’Inghilterra, famosi avvocati e cantanti. Fu contatto per il restauro del Teatro La Fenice di Venezia dopo il rogo. Lui rifiutò, era oramai troppo anziano per accettare un impegno di quella portata. Quando lo intervistai, stava costruendo un comò e sul frontale dei quattro cassetti, vi erano incise con il legno di ebano, i pentagrammi delle quattro stagioni di Vivaldi. Un mestiere il suo, dove come mi disse, “non c’è concorrenza, ma solamente il vendere la propria capacità di creare, la propria arte”. Insomma il prezzo per quelle opere non era dettato dalla concorrenza. Lo intervistai e mi raccontò una storia assai significativa dei tempi che corrono, in fatto di occupazione giovanile. “La Regione – mi disse – mi mandò un po’ di tempo fa, due giovani. Lì pagava l’Ente nel quadro della formazione professionale giovanile”. Lui era disposto a fargli scoprire tutti i segreti del mestiere, come a voler lasciare il testimone dietro di lui. Lavorare la noce centenaria e fare quegli intarsi con il legno di rosa, è come laurearsi. “Dopo pochi mesi – mi raccontò sconfortato – chiamai la Regione e gli dissi che i due giovani non erano affatto interessati a imparare quel mestieri”. Assai distratti e troppo presi da altre passioni piuttosto frivole. Ecco, mi son sempre ricordato di quel vecchio artigiano, ogni volta che sento parlare di occupazione giovanile.
Questo bel racconto di Casaioli mi fa pensare, spinge alla riflessione.Soprattutto nei riguardi di quei due ragazzi che si dicevano interessati a scoprire i segreti del fare, e la riflessione secondo me non può non portare che a due considerazioni,forse contrastanti le une con le altre, o almeno apparentemente.Da una parte il modo del reagire a quell’impegno da parte dei due giovani chiama in causa la loro educazione e quindi anche i loro bisogni.Dico questo perchè se con quel lavoro avessero dovuto giocoforza campare almeno in quel momento, probabilmente si sarebbero applicati di più,primo non avendo alternativa e secondo anche accettando il periodo di duro apprendistato.Di chi la colpa per tutto questo se colpa la si possa chiamare? Non può non essere di nessuno, ma l’inclinazione mia personale non può che in poca percentuale addossarsi al sistema in generale che li abbia resi cosi disillusi, magari apatici e aventi aspettative che non esistevano.La colpa e responsabilità principale è stata direttamente la loro, perchè dietro ad ogni scelta e ad ogni impegno credo che ci debba essere la forza di perseguire ciò che si è scelto, non solo per responsabilità verso noi stessi ma anche verso gli altri, il mondo che ci circonda, la famiglia ed il nostro stesso avvenire di potersi formare la vita come ci immaginiamo che possa essere.E se non s’immagina e se non se ne ha l’idea-perchè ciò che ci guida non è altro che l’idea-vuol dire sottoporci a delle prove che probabilmente andranno a fallimento.Soprattutto perchè il mondo intorno a noi richiede impegno e conoscenza crescenti, grande sforzo e grande volontà di imparare e non ci si può divagare come se ciò che si affronta fosse un giuoco.L’altro elemento è la politica e l’educazione che deve dare la politica, per la quale si cerca di instradare i giovani ad apprezzare e realizzare vari mestieri spesso oggi dimenticati e che richiedono sacrificio.La stessa politica pubblicizzando il lavoro come realizzazione del proprio ”io” spinge chi ha basi di conoscenza deboli a fare e possedere valutazioni irreali di ciò che si possa incontrare strada facendo.Questo la politica lo fà verso chi non si pone criticamente su ciò che succede e ciò che circoli nel mondo mediatico oggi, dove siamo bombardati da concetti irreali, inventati, dove ti fanno vedere mondi che non esistono, anche da immagini magari che mai ti aspetteresti di osservare e di notare, come lo sguardo od un atteggiamento di un viso di uomo o di donna, che lanciano messaggi riferiti ad irrealtà, dove sogno e nebbia s’incontrano ma che nulla producono se non situazioni e condizioni momentanee, evanescenti nella vita delle persone. E le aspettative di chi è osservatore di tutto questo rimangono catturate nelle menti, magari anche vedendo un nuovo modello di auto che corre lungo una strada e la facilità dei suoi comandi e l’ebrezza che dà alle persone che la guidano.Ecco, tutto questo mondo che in pochi decenni ci è stato sbalzato addosso ha condizionato le nostre menti,ha creato nuovi bisogni dove non si distingue più se siano bisogni superflui o necessari ma presentati in tal maniera che facciano scattare sentimenti di emulazione sociali fortissimi, ai quali sembra semprepiù arduo ed impossibile resistere.Tutto questo ci porta a far coinvolgere le nostre menti in una condizione di alienazione dalla quale non diventa più possibile l’accettazione della realtà e dei nostri bisogni reali e materiali, perchè diventiamo preda spesso del sogno, ed è il sogno a trasportarci lontano ed a far di noi esseri alienati, esseri che spesso non ragionano nemmeno se gli si ponga davanti un elemento culturale di come si possa arrivare ad una realizzazione,ad un lavoro,dove possa derivarne uno status economico che porta a scelte di vita,ad una maturazione atta a poter criticare se stessi e gli altri.Si diventa spesso giovani predati solo dalla asocialità e quindi dall’isolamento e dal feticismo delle merci dove scarichiamo le valvole dei bisogni consumistici,del rifiuto della realtà che ci dà ansie, mentre invece ci vorrebbe una perseveranza ed una forze individuale che spesso nemmeno la famiglia può dare.Ecco queste due elementi sono i due elementi che in porzioni diverse ed amalgamate fra loro,dove non si può più dire che l’una cosa è stata causata da questo o dall’altro caso,si mischiano gli uni con gli altri e conducono alle scelte che hanno poi fatto quei due ragazzi.Scegliere la maggior parte delle volte il nulla e continuare a sognare.In tutti i casi però- e si scopre l’acqua calda-dipende dal grado di bisogno e da come lo si percepisca che possa essere o non essere essenziale. Siamo animali adattabili e se non lo fossimo forse saremmo già scomparsi dalla faccia della terra, ma secondo il mio sentire corriamo tale rischio in mamiera crescente mentre la maggioranza delle persone continua imperterrita la propria parabola.