LA CRISI DEL COMMERCIO LOCALE: COME SE NE ESCE?

venerdì 26th, luglio 2019 / 18:54
LA CRISI DEL COMMERCIO LOCALE: COME SE NE ESCE?
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Dall’inizio degli anni 90 il commercio prese la strada degli ipermercati, dei centri commerciali integrati, tutti posti fuori dai centri abitati, in zone produttive anonime, agli svincolo stradali e autostradali. Conseguenza fu lo svuotamento di paesi e città, dei centri storici e di quelli meno storici, anche a forte vocazione commerciale, come – nella nostra zona – ad esempio Chiusi Scalo, Torrita o Sinalunga e la crescita di pari passo di aree cerniera tipo Po’ Bandino che è comune di Città della Pieve, ma a 500 metri da Chiusi Scalo o l’area tra il casello A1 di Bettolle e Foiano della Chiana o Collestrada nei pressi di Perugia.. Negli ultimi anni però anche i grandi centri commerciali sono andati in crisi e la piccola lieve ripresa del commercio di qualità e anche di quelli che venivano chiamati “negozi di vicinato” (cosa che negli Usa e in altri paesi d’Europa è in atto da anni con risultati migliori), non ha compensato le perdite. Le statistiche dicono che in Italia chiudono 14 negozi al giorno. Che dal 2011 sono “saltati” quasi 40 mila esercizi. Solo in Provincia di Siena, per rimanere nelle nostre vicinanze, dal 2011 al 2018 hanno chiuso i battenti oltre 400 imprese commerciali.

E se qua e là, soprattutto nelle realtà più turistiche, il numero delle imprese sale (cioè sono più quelle che aprono che quelle che chiudono) ciò sembra dovuto quasi esclusivamente all’apertura di imprese “non locali”, per lo più empori cinesi, negozi o esercizi etnici che fanno sì un servizio, ma lasciano poco come ricaduta sul territorio. Ma il problema e la concorrenza principale, sia per i supermercati e centri commerciali sia per i negozi di quartiere, più o meno di qualità, è quella del commercio on line. Ovvero degli acquisti su Amazon e su catene presenti sul web. Tempi di consegna rapidissimi, sconti che i negozi tradizionali non possono nemmeno sognare. E poco importa alla clientela se poi Amazon e altre catene sfruttano i lavoratori, propongono contratti capestro e paghe da fame. Nelle città è forte anche la concorrenza dell’e-commerce anche per le pizze o i surgelati a domicilio… figuriamoci per scarpe, cappotti, jeans, computers, elettrodomestici…

Dieci anni fa (era il 2009) sulle colonne di Primapagina cartaceo pubblicammo un servizio intitolato “Chiusi, voce del verbo chiudere” ed era un servizio sulla morìa dei negozi, sulle saracinesche abbassate, sulle decine e decine di cartelli “Vendesi” o “Affittasi” che si vedevano in giro. Un biglietto da visita peggiore della frana sulla 146… 

All’epoca fummo accusati dagli stessi commercianti e loro associazioni di fare gli uccelli del malaugurio. Di “gufare” contro la città. Qualcuno ci affibbiò l’epiteto di “Nuvola Nera” (noi rispondemmo: “se mai, Nuvola Rossa”, ma lasciamo perdere)…

Adesso anche i commercianti sono allarmati quanto noi. I numeri prima citati li ha forniti nei giorni scorsi il responsabile senese della Confesercenti, Nannizzi, che chiede alla politica misure adeguate per salvaguardare il commercio tradizionale…

Qualcuno nel frattempo si è adeguato, modernizzato e attrezzato per vendere on line. Ma anche questa è una frontiera che non tutti sono in grado di traguardare. Vendere pere e susine o prosciutto su internet non è facile. Lo stesso vale per le officine meccaniche o le falegnamerie che non possono competere sul prezzo di un treno di gomme o di una libreria con le grandi catene che vendono su Amazon…

Certo, i cartelli vendesi e affittasi, rispetto a dieci anni fa sono aumentati e non diminuiti e ora sono numerosi anche dentro i centri commerciali. E nella “morìa” generale, spariscono anche servizi importanti se non essenziali, come le edicole (a Chiusi città per esempio l’ultima ha chiuso il 31 di maggio). Perché anche i giornali ormai la gente li legge su Internet…

I negozietti ad uso dei turisti (vinerie, souvenir, articoli di pelletteria, bistrot per merende veloci) fanno colore, laddove ci sono, ma non compensano le chiusure di negozi di alimentari, di frutta e verdura, delle edicole, delle librerie, dei negozi di elettrodomestici…). Spesso anche quelle sono attività in franchising, o  “seconde e terze attività”, che servono più a scaricare tasse che a produrre reddito.

Una cosa inoltre forse sfugge: quando un negozio abbassa la saracinesca e chiude sono posti di lavoro che saltano (non solo quello del/la titolare ed eventuali dipendenti o collaboratori, ma anche quelli di di chi lo rifornisce), soldi che non vanno più in circolo, Pil che cala.. E’ vero che il Pil non misura tutto, come diceva Bob Kennedy. Ma che tutto ciò significhi più povertà e meno ricchezza dovrebbe essere evidente. Come se ne esce? c’è chi fa campagne per acquisti a km zero, per scegliere prodotti sani e biologici possibilmente da acquistare presso produttori conosciuti, chi invita a scegliere i negozi locali per una questione di fiducia tra cliente e negoziante… altri propongono iniziative di sostegno da parte degli enti locali, infrastrutture efficienti, incentivi, riduzione di tasse e balzelli….  E c’è anche chi propone di riportare i centri commerciali, le multisale cinematografiche e i fast food all’interno delle città, anche dei centri storici. E questa è una tendenza che da qualche parte è già cominciata. Forse varrebbe la pena discuterne, ma non solo tra sindaci e qualche referente di associazione di categoria.

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