IL FEMMINISMO DELLE PAROLE DI VERA GHENO E IL PROTOFEMMINISMO SEICENTESCO DI ARTEMISIA GENTILESCHI
Domenica scorsa, al Lars Rock Fest di Chiusi, Maya de Leo e Vera Gheno hanno parlato di femminismo, post femminismo, transfemminismo, dei nuovi linguaggi che impongono il “buonasera a tutte, a tutti e a tuttə”, con quella lettera e rovesciata chiamata schwa, utilizzata al posto della desinenza maschile per definire un gruppo misto di persone, come attualmente si insegna anche a scuola. Hanno parlato di come la parità di genere passi anche attraverso cose di questo genere, che possono sembrare oziose. Molto oziose rispetto alle battaglie femministe degli anni ’70, certamente più concrete. Anche le battaglie giuste hanno bisogno di liturgie… E di parole. Il femminismo, ma anche il “femminile” inteso come genere, hanno bisogno di un uso appropriato e consapevole di parole precise… Questo il succo del discorso delle due studiose.
Ascoltando le disquisizioni, a mio giudizio un po’ accademiche, pure troppo, tanto da generare quel fastidio che si prova di fronte alle ostentazioni, alle forzature fatte per farsi notare, per marcare una differenza, un po’ come la posa inusuale, tipo yoga, della Gheno sullo sgabello, con il piede scalzo…
E’ vero che si era ad un festival rock e in una situazione del tutto informale, ma… diciamo che ci sono anche dei limiti, delle convenzioni, non necessariamente borghesi, che sarebbe bene rispettare sempre, anche quando e soprattutto si parla di disparità, di problemi di inclusione, di discriminazioni… Ve lo immaginate Travaglio o anche uno Scanzi qualsiasi che parla ad una platea scalzo e con un piede sullo sgabello su cui è seduto?
Parlando di femminismo mi è venuto in mente un dipinto. Il dipinto più violento e cruento che io conosca e che è, se vogliamo, addirittura più “sanguinoso” di Guernica, perché non è astratto, ma ritrae corpi veri. Due donne che uccidono un uomo, tagliandogli la gola con una spada. Una lo tiene fermo, l’altra con una mano gli blocca la testa e con l’altra gli affonda la lama nella gola per tagliargliela la testa…
Ecco, quel dipinto lo ha fatto una donna. Non un uomo. La pittrice donna (pittrice, non “pittoressa” come qualcuno ha scritto) più famosa di sempre. E lo ha fatto 400 anni fa. fa. Si chiama Artemisia Gentileschi e sabato scorso, 8 luglio, sarebbe stato il suo compleanno. Nacque infatti a Roma l’8 luglio del 1593. I social mentre Vera Gheno e Maya De Leo parlavano al Lars il 9 luglio, ce lo avevano appena ricordato.
Il dipinto si intitola “Giuditta e Oloferne” ed è la scena di una decapitazione. Una scena forte, violenta feroce.
Mi è venuto in mente il dipinto di Artemisia Gentileschi perché la pittrice è considerata una protofemminista, una donna che con l’arte, ma anche con la tenacia conquistò una parità che nella sua epoca era lontana da venire. Lei che aveva subito uno stupro da parte del pittore Agostino Tassi e poi l’umiliazione di un processo a Tassi che in realtà fu un processo a lei. Nel quale dovette più volte raccontare i dettagli della violenza subita e provare a dimostrare che non era stata lei a provocare e a indurre Tassi in tentazione…
E quella scena sanguinosa e violenta, sia pure così lontana nel tempo, mi appare ancora oggi come un messaggio più forte, più diretto, più concreto e carnale del “tutte e tutti” e della schwa che sta a indicare chi sta nel mezzo. Non a caso le femministe anni ’70, quelle più arrabbiate con l’universo maschile prevaricatore lo elessero a modello…
Giusto, giustissimo e anche opportuno parlare delle disparità di genere, di omosessualità sia maschile che femminile e dei problemi di inclusione/esclusione, della difficoltà ad accettare i cambiamenti di linguaggio che servono a evidenziare i problemi di cui sopra, che servono ad acquisire l’abitudine a considerare normale ciò che finora la cultura dominante bacchettona e perbenista ha considerato invece una “anomalia”. Giusto e opportuno farlo anche in circostanze festose come il Lars Rock Fest.
Detto questo però ho avuto la sensazione (opposta) che certe argomentazioni portate dalle due relatrici più che ad abbattere barriere, steccati e convenzioni radicate dure a morire, servissero a creare nuovi recinti, comunità ristrette di quelli, quelle e quellə che hanno capito tutto prima e più degli altri e si compiacciono del poter mostrare l’ombelico o parlare col piede scalzo sopra lo sgabello. Mentre nel mondo reale della schwa non si accorge nessuno e tutto resta come prima.
Ovviamente può anche essere che essendo io ormai di un’altra generazione, certe modernità non le capisca e faccia fatica ad assimilare certi linguaggi. D’altra parte non ho ancora ben capito a cosa serva il tasto cancelletto#.
p.s. Al tempo delle femministe arrabbiate incontri e dibattiti come quello con Vera Gheno e Maya De Leo al Lars, si facevano nelle feste de l’Unità. Oggi alle feste de l’Unità si balla il liscio. E solo quello.
Marco Lorenzoni
L’ articolo ci induce a riflettere … Io credo ( è solo un’opinione personale la mia e quindi assolutamente opinabile ) che si può e si deve parlare di tutto ma sarebbe opportuno farlo con toni e posture consone soprattutto quando lo si fa di fronte ad una platea. Assumere l’ atteggiamento del “so’ ganzo ” non sempre giova alla causa, allisciarsi ripetutamente un piede scalzo e poi tamponarsi il collo magari anche no grazie nonostante si lavori in CRUSCA.
Mi piace molto questo articolo: il fastidio che traspare segnala che il discorso portato dalle due linguiste picchia su un nervo scoperto. La critica alla grammatica mostra come alcune strutture profonde che diamo per “naturali” siano in realtà un abito mentale storicamente determinato e databile. Come tale è il risultato di forme di dominio. Una volta questa storicizzazione si chiamava “critica dell’economia politica”. Lo stesso dicasi del “bon ton” da (vero) relatore. Sicuramente Gheno avrebbe avuto un altro aplomb in una situazione meno informale. O forse no. Anche questo fa parte del pacchetto “fastidio” a domicilio 🙂