25 APRILE, UN FIORE PER BEPPE IL POLACCO. QUELLA PAGINA NERA DELLA RESISTENZA SUL MONTE CETONA
CHIUSI – Su La Stampa di oggi, un articolo di Claudio Silingardi, alla vigilia del 25 aprile, parla di un partigiano particolare e di migliaia di altri partigiani come lui. Figure poco note, che diedero un contributo rilevate alla resistenza in Italia. Il partigiano particolare è Heinz Riedt, tedesco, interprete nel comando SS di Padova, ma in realtà informatore dei partigiani e nel dopoguerra mediatore tra Bertolt Brecht e il Piccolo Teatro di Milano e traduttore in Germania di “Se questo è un uomo” di Primo Levi. Heinz Riedt veniva dalla Wermacht. Come lui furono migliaia i soldati tedeschi che tra il 1943 e il 1945 disertarono e si unirono alla resistenza italiana. Come fecero anche tanti militari italiani del Regio Esercito fascista. “Le truppe della Wermacht erano alquanto composite: E in effetti la maggior parte delle diserzioni avvengono tra i soldati austriaci, polacchi, cecoslovacchi e russi” scrive Silingardi. Cioè tra i soldati dei territori che la Germania nazista aveva conquistato nei primi anni di guerra o si era annessa, prima del conflitto.
Nel mio libro, da poco uscito in libreria, “Voce del verbo tradire”, c’è un capitolo dedicato alla vicenda di uno di quei soldati: Joseph Klucine, anch’egli sottotenente della Wermacht, disertore, che il 1 marzo del 1944 si unisce ai partigiani di Chiusi e poi a quelli distaccati sul Monte Cetona.
E la sua è una storia, che secondo me merita di essere raccontata. E’ una brutta storia. Una storia ignobile. Una pagina nera della Resistenza in questo territorio rimasta per oltre 70 anni sottotraccia, anche tra gli stessi protagonisti e testimoni diretti di quei giorni fatidici che segnarono il passaggio del fronte e la liberazione dal nazifascismo, tra il 1 marzo e il 30 giugno del ’44.
Joseph Klucine è polacco, quando si unisce ai partigiani chiusini ha 27 anni, nella vita precedente faceva l’avvocato, conosce 7 lingue e conosce il funzionamento delle armi automatiche. Per questo i partigiani gli affidano subito il compito di istruttore militare e il comando di una cinquantina di uomini del “Distaccamento Fastelli”.
Sul Monte Cetona i distaccamenti partigiani sono più d’uno fanno tutti capo alla Brigata SIMAR. Dale iniziali del comandante. Un altro militare che si chiama Silvio Marenco. “Nella Brigata Simar Klucine è una specie di Tex Willer, un combattente coraggioso, audace, una sorta di eroe romantico, ma inflessibile, svelto con le mani e con le pistole che tiene infilate nella cintura. non ha paura di niente e spesso fa azionisfrontate copme quando disarma e sbeffeggia in pubblico un militare della Mas in licenza a Sarteano che si vantava di aver fatto cose terribili ai partigiani o qiando nei pressi di Chiusi giustizia sul posto, senza tanti complimenti un vecchio fascista marcia su Roma e “sciarpa littorio” che aveva preparato una lista da consegnare ai tedeschi. Beppe il Polacco diviene in breve tempo una specie di mito per i partigiani più giovani (e proprio perché giovani, meno politicizzati) fortemente attratti dai suoi metodi spicci, perché ritengon che coi fascisti e i tedeschi ci sia poco da tergiversare. Idee confuse, certamente, ma ferme, anche sul dopo. E sui traditori. L’8 aprile del ’44 per esempio Klucine fa fucilare tre fascisti e due carabinieri cheavevano eseguito degli arresti di partigiani e ne avrebbero fatti altri, se non li avessero presi”.
Pietà l’è morta. Nel ’44 non c’è spazio sul Cetona per atteggiamenti che oggi definiremmo buonisti. Joseph Klucine però è il contrario di ciò che invece è il comandante Silvio Marenco, anche lui militare, poco politicizzato (all’apparenza), sicuramente monarchico. E attendista.
Così i due entrano presto in rotta di collisione. Marenco cerca prima di isolare e neutralizzare il polacco, poi di allontanarlo dalla montagna, confinandolo a Chiusi… questo perché, data la sua irruenza lo ritiene che sia d’intralcio e possa compromettere le trattative che lo stesso Marenco ha deciso di intavolare coi fascisti, per evitare rastrellamenti e arresti, assicurando in cambio lo stop alle azioni partigiane.
Il colonnello Marenco blocca Klucine e i suoi seguaci a Chiusi e li mette sotto sorveglianza in modo che non compiano azioni. In sostanza Marenco allontana il Polacco e i suoi dalla Brigata Simar e nello stesso tempo tenta un accordo con il prefetto di Siena, il fascistissimo Giorgio Alberto Chiurco.
Questa linea non piace per niente a Klucine e ai suoi e nelle bande partigiane del Monte Cetona si apre un fronte interno, una lotta senza quartiere tra Marenco e il Polacco…
Per il comandante della Simar adesso il nemico numero uno è Joseph Klucine. Più dei tedeschi e dei fascisti. Il 7 maggio ’44 Marenco ordina ai suoi di eliminare Klucine, Poi comincia a far circolare lettere e voci su azioni sconsiderate del polacco, compreso un furto, mai confermato neanche dai presunti derubati. Addirittura lo accusa di intelligenza con il nemico. E quando apprende che Klucine sta cercando di rimettere in piedi la sua banda precedentemente dispersa, ordina che non solo lui ma tutta la banda deve essere annientata fisicamente. E’ una condanna a morte collettiva.
Il 6 giugno del ’44, giorno della liberazione di Roma, i partigiani della Simar individuano il rifugio di Klucine, vicino alla Cartiera di Sarteano. Lo circondano e gli intimano di uscire. Beppe il Polacco esce con le mani alzate, con lui c’è un partigiano sarteanese, Piero Concoloni, che fa altrettanto. Joseph viene prima colpito con il calcio del fucile, poi trascinato via, verso un posto più isolato. Si sentono degli spari. Poco dopo i partigiani Gabriele Brogi e Acornero Dragoni tornano indietro con Piero Cioncoloni, ma senza il polacco. Cioncoloni verrà liberato e reintegrato nella Simar senza alcuna formalità.
Finisce male, dunque, malissimo l’avventura italiana di Joseph Klucine, ucciso a bruciapelo dai suoi ex compagni, per ordine di un colonnello badogliano.
Il polacco era una testa calda? certamente sì. Ma stava facendo la sua parte e quella faida che lo vide contrapporsi al comandante della Simar resta una pagina nera, la più nera della resistenza nella “terra di mezzo”. Una pagina nera dove c’è dentro di tutto: la contrapposizione tra due concezioni della guerriglia partigiana, c’è l’incompatibilità di carattere tra due persone e il tentativo dell’una di far passare l’altra non solo come un elemento di disturbo, incontrollabile e quindi pericoloso per la Brigata, ma come un nemico, addirittura in ladro, un prevaricatore e un traditore. C’è una questione di leadership che Marenco sente messa in discussione e non lo tollera. C’è l’invidia dello stesso Marenco per l’appeal che quel ragazzone biondo riesce ad avere sui giovani combattenti e che lui invece non ha. E c’è infine anche l’obbedienza cieca (e non si capisce perché) dei partigiani locali,che nonostante non siano monarchici, badogliani e attendisti come il loro comandante si piegano all’ordine del colonnello, senza farsi troppe domande. Ma c’è anche un’altra cosa: c’è il silenzio e il rifiuto di parlare di questa storia, un silenzio durato oltre 70 anni da parte degli stessi compagni più vicini e più fidati di Klucine, quelli che rischiarono di fare la stessa fine e che sono rimasti muti fino alla morte di ognuno.
L’idea che mi sono fatto – e nel libro lo scrivo – è che quel silenzio abbia avuto un motivo: quello di non infangare, neanche d striscio la scelta di andare in montagna, di prendere le armi e di combattere i fascisti e i nazisti occupanti. Dare ragione a Klucine avrebbe significato in qualche modo “macchiare” la resistenza in questa parte di Toscana e gli stessi suoi compagni non se la sono sentita portandosi e oro convinzioni nella tomba.
Io credo che al fondo della vicenda ci sia stato anche un pizzico di razzismo e di nazionalismo ottuso. Secondo l’ordine di Marenco tutta la banda di Klucine doveva essere attaccata e annientata, invece solo lui alla fine viene passato per le armi. Perché è il capo, perché Marenco è lui che vuole eliminare e togliersi dai piedi per motivi personali. E soprattutto perché è un polacco. Uno straniero.
A 77 anni di distanza si può dire, nella ricorrenza del 25 aprile, che anche la Resistenza ha avuto le sue pagine oscure. Che non cambiano la sostanza della storia né sminuiscono l’importanza della lotta di liberazione, ma non vanno tenute sottotraccia come troppo a lungo è stato fatto. A Chiusi dal 2014 il Comune ogni anno rende omaggio ai “liberators” alleati con una visita ad un cimitero di guerra del Commonwealth. In questo 25 aprile segnato per il secondo anno consecutivo dalla guerra al covid e dal coprifuoco, a me sembra doveroso deporre un fiore alla memoria di tutti quei militari disertori della Wermacht che si unirono ai partigiani per liberare questo Paese. E un fiore più rosso alla memoria di Joseph Klucine fucilato dai suoi compagni per l’invidia di un colonnello.
Marco Lorenzoni
E
Terreno fertile per la penna di Gianpaolo Pansa, che ha raccontato con dovizia di particolari la Storia del dopoguerra visto dalla parte dei Vinti.
In questo caso non si tratta di sangue dei vinti… ma di una faida tra i vincitori e non a posteriori, ma mentre ancora essi combattevano il nemico nazifascista…
Di Marenco ricordo che nella descrizione dei fatti della storia della Resistenza locale ci fu un episodio che la diceva lunga sugli aspetti che sarebbero venuti dopo la liberazione data ormai per scontata e che questa sarebbe stata ormai slo questione di tempo mentre gli alleati avanzavano verso il Nord. E l’episodio a cui mi riferisco fu quello del mancato accordo di Marenco con il comandante ”Luca” al secolo Alfio Marchini comandante della Brigata Risorgimento che comprendeva diverse bande partigiane del territorio umbro circostante poi confluite appunto nella Risorgimento. Alfio Marchini incaricato dal CLN di Roma puntava all’unificazione delle varie bande sul territorio per costituire un unica formazione partigiana ed aveva già preso contatti con diverse bande nella Val d’Orcia e nell’Amiatino che con precisione furono La Mencattelli e le Brigate Lavagnini le quali si erano dette favorevoli a tale unificazione. Solo il Col. Marenco si rifiutò di compiere tale operazione adducendo il fatto che lo Stato Maggiore Clandestino di Roma (il centro militare monarchico) aveva affidato a lui il Comando di sei provincie in questa parte del centro italia.I tentativi di tale unificazione così fallirono ed ogni banda rimase autonoma con tutte le conseguenze che tale fatto ebbe in ciascuna di queste sia a livello organizzativo che di coordinamento contro il comune nemico.Dopo la fine della guerra sono emersi contatti di Marenco con Chiurco il feroce comandante fascista di Siena dove si era stabilito che si sarebbero sopportati a vicenda e tollerandosi l’uno con l’altro. La storiografia non abbonda sulle ragioni di tale rifiuto all’unificazione delle bande ma il denominatore comune fu quello delle ragioni politiche,poichè sia il complesso militare monarchico chè gli alleati, sapevano bene che dette bande erano composte perlopiù da Comunisti e da militari sbandati che si erano messi alla macchia e tale fatto nella ricostruzione che avrebbe visto l’Italia del dopoguerra la presenza di una grande quantità di uomini organizzati sotto quasi quello che appariva allora un ”monoclore politico” era una fatto che avrebbe pesato nelle scelte e nella distribuzione ed uso del potere che avrebbe dovuto essere costituito.E la stessa cosa fu da parte degli alleati quando si trattò di concordare la data ed il luogo del paracadutamento delle armi da parte appunto degli Inglesi,armi che sarebbero state messe in mano ai partigiani.La diserzione di tale distribuzione fu quella che segnò in parte anche le sorti per i tedesch in fuga di poter riprendere fiato e costituirsi alla difesa del territorio conro gli stessi alleati. Certamente se la Wermacht avesse voluto avrebbe avuto tutti i mezzi necessari per spazzare via poche centinaia di uomini che si erano dati alla macchia ma che boicottavano comunque la ritirata,con assalti notturni ai depositi di armi ed incursioni dai boschi all’artiglieria tedesca piazzata nelle gole del Fornello.Tutto questo gravò sul fatto che le forze partigiane non potettero presidiare i vari paesi fra i due laghi lasciandoli alla mercè totale degli alleati e dei tedeschi e non si potettero evitare quindi i bombardamenti alleati che rasero al suolo cittadine come Pozzuolo ed altri piccoli centri,con decine e decine di morti anche nei luoghi più isolati battuti dall’arttiglieria.Forse si sarebbero potuti evitare tutte queste rovine ? Le bande partigiane al di là delle discrasie interne fecero il possibile ma quelli del Giugno 1944 furono giorni di vero fuoco e distruzione dove si registrarono morti a centinaia nella popolazione civile con la distruzione di villaggi e frazioni.Non si dimentichi che anche a Chiusi il 22 Giugno ci fù il sangue che corse a iosa nella battaglia del Teatro Mascagni.Da parte degli alleati la battaglia che infuriò nel crinale di Villastrada, Vaiano, Gioiella, San Fatucchio e centri minori procedendo verso il Pescia, costò ben oltre 250 morti da parte dei militari, per non parlare anche dei morti nella strage della Muffa e di Montebuono (fatti successi e rimaste in parte non ancora perfettamente chiariti). Uno scontro frontale con la Wermacht sarebbe stato impensabile e perso in partenza da parte delle bande partigiane e quindi alla fine ci si limitò a difendere il territorio con sporadiche attività di guerriglia,assalti notturni, disarmo improvviso di drappelli tedeschi,attacchi furtivi tipici di tutte le attività di guerriglia e questo probabilmente produsse alla fine un fatto positivo salvando il territorio da attività belliche molto più pesanti dove ne avrebbero pagato il conto soprattutto i civili, cosa invece non successe da altre parti dove i tedescghi avevano fatto maggiormente resistenza.Difatti ci fu qualcuno che nel comando delle bande disse che ai tedeschi occorreva ” fare i ponti d’oro” affinchè si allontanassero il più possibile dalla nostra zona,evitando ancorpiù vittime e distruzione, perchè dove infuria una battaglia chi ne paga il costo più alto è quasi sempre la popolazione civile.Difatti gli assalti dei tedeschi votati alla conquista del Monte Pausillo furono respinti a forza di sventagliate di mitra che partivano da dentro il bosco e lanci di bombe a mano.I tedeschi ritennero che in quei boschi pullulassero centinaia e centinaia di uomini e che pur essendo un punto strategico dove potersi installare per contrastare l’avanzata degli alleati ne furono così dissuasi.Quando un fronte di guerra attraversa un territorio succedono sempre fatti destinati a non essere chiariti dalla storiografia soprattutto da parte di chi scrive il succedersi degli avvenimenti.Dai documenti che ha lasciato mio zio Solismo Sacco commissario politico della Brigata Risorgimento, di tale natura di fatti mai profondamente chiariti ne è stata lasciata precisa testimonianza se non altro nelle pagine del suo libro dal titolo ”Storia della Resistenza nella zona Sud Ovest Trasimeno ”-Quaderni Regione dell’Umbria Numero speciale 1991- specialmente sui fatti della strage di Montebuono e su quella della Muffa.Ho reputato opportuno immettere nel mio sitoweb che comprende l’archivio fotografico http://www.thefaceofasia.org” anche una breve cartella fotografica dal titolo”La Brigata Risorgimento” a cui si accede cliccando su Galleries e poi cliccando sopra la cartella che si desideri aprire e procedendo con i bottoni di avanzamento e le relative freccette per cambiare pagina,cartella ed immagine.In tale cartella sono ricostruiti brevemente i fatti relativi al riconoscimento della Brigate Partigiane a Perugia e all’azione di Lanfranco Bonanni cosi come appaiono dalle pagine scritte da mio zio ed anche apparenti su internet scritte da altri su tale persona che comandava i partigiani nell’azione di Montebuono ed a dire di quanto appare nel libro predetto di mio zio fu un ”rimestatore” di documenti relativi alle bande partigiane per il loro riconoscimento ufficiale postbelllico.Da una mia successiva ricerca dopo anni è trapelato poi il fatto dell’azione di tale Bonanni che rivela la propria identità(vera o falsa non è dato di sapere) ad un prelato di Buti(PI) mentre come risulta da quanto appare su internet a proposito dello stesso dove vengono citati dei documenti in possesso dell’istituto Storico della Resistenza di Firenze la presenza dei quali non è stata da me reperita in detto archivio ed è probabilmente scomparsa.Queste sarebbero tutte storie dove i ricercatori degli istituti storici troverebbero pane per i loro denti se volessero cimentarsi ad affondare morsi ”nella polpa” e sulla storia accorgendosi della quantità di notizie controverse che vi possano essere sui periodi del passaggio della guerra in un territorio e che riguardano la vita e la presenza di soggetti che hanno commesso crimini efferati mai conosciuti, oppure di figure doppiogiochiste che recitano ruoli chiave per determinare i fatti del presente ma anche quelli del futuro…ah dimenticavo: se visitate il sito cliccate anche sul sonoro poichè ho cercato di immettere la musica nelle rispettive cartelle fotografiche.