ROCK E MACCHINA DA PRESA: IL LIGA REGISTA E L’ITALIA SPEZZATA TRA LA VIA EMILIA E IL WEST

lunedì 29th, gennaio 2018 / 17:03
ROCK E MACCHINA DA PRESA: IL LIGA REGISTA E L’ITALIA SPEZZATA TRA LA VIA EMILIA E IL WEST
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CHIUSI –  Se parliamo di rock Luciano Ligabue non è Bob Dylan e nemmeno John Fogerty dei Creedence… Ma è comunque uno che ha ottenuto il record europeo di spettatori ai propri concerti. E uno che con le sue canzoni ha raccontato, anche abbastanza bene, l’Italia dal 1990 in poi… In particolare la sua fetta d’Italia. Quella tra la via Emilia e il west. Quella dei bar della bassa. Delle notti di nebbia, di umidità, quella delle rive del Po’, dove certe notti… tra cosce e zanzare…  Meno “ideologico” di Guccini o Bertoli, anche perché ormai le ideologie di prima non ci son più da un pezzo, il Liga non è comunque uno qualunque… E’ uno che ha sempre avuto la voglia di raccontare. Con la musica certo. Ma non solo. Anche con la macchina da presa.  E una rockstar, sebbene di provincia (nel senso che gli piace cantare la provincia profonda e rimanere ancorata al suo territorio di riferimento), che si mette a fare il regista cinematografico diventa, al di là di tutto, un fenomeno da osservare. Perché non è usuale. Perché il rock c’entra, ma non esaurisce il discorso. E anche perché… il Liga i film li sa pure fare. Il primo è di 20 anni fa ed è un cult su quella generazione che rischiò di perdersi tra gli anni ’70 e ’80 e in parte si perse, pur avendo grandi idee, grandi ideali, buona cultura e molte speranze… Quel film si intitolava ‘Radiofreccia’. Poi ne ha fatto un altro nel 2002: “Da zero a dieci”… Il 25 gennaio è uscito nelle sale il terzo: “Made in Italy” che prende spunto da un concept album omonimo del 2016…

Ma non è un videoclip. Non è l’album, il rock, che diventa film. E’ un film vero.

L’ho visto ieri al Clev di Chiusi. Non credo che rimarrà negli annali del cinema italiano. Ma è comunque un buon film. Meglio di tanti altri che circolano nelle sale. E Liga dimostra di avere una buona mano e l’occhio del regista.

Il film è sicuramente ben girato. La trama tradisce forse quella retorica emiliana, un po’ buonista, e la sceneggiatura è forse troppo simile a Radiofreccia: quei monologhi, belli, intensi, ma troppo insistiti (proprio perché c’è già stato Radiofreccia), lo stesso ambiente della bassa reggiana, il gruppo di amici tutti per uno e uno per tutti, l’amico cazzone, artista per diletto e fancazzista per costituzione  che finisce male, la crisi che picchia duro e una ribellione sociale e politica che c’è, ma resta individuale, interiore, al massimo in famiglia, perché non è più tempo di proteste di massa… Una società che si chiude in se stessa è non sa più dialogare, qualche accenno al tema sempre caldo e presente dell’immigrazione, del rapporto con i nuovi arrivati… C’è il dramma di chi perde il lavoro a 50 anni… E una classe lavoratrice che non è più classe ma una massa informe di individui l’un contro l’altro armato. E spesso in fuga dalla routine, dalla provincia, da se stessi. Dal nulla che ti gira intorno.

Non offre ricette Ligabue. Ma le interpretazioni intense di Stefano Accorsi e Kasia Smutniak danno comunque sostanza al film.

Il lieto fine non c’è, ma si intravede… e qui spunta il buonismo e l’ottimismo emiliano. Che forse è una virtù, o forse è invece un retaggio del passato. Un modo per ostinarsi a non vedere quali danni ha prodotto questo cazzo di società negli ultimi 20-30 anni, come dice il protagonista al datore di lavoro che lo sta licenziando e che lui non ha mai visto prima… Come certi brani rock degli anni ’60 e ’70, certamente critici e duri contro la società dell’epoca, ma piuttosto criptici e non espliciti come una canzone di lotta o da corteo, anche “Made in Italy” di Ligabue ci racconta un’Italia che non funziona, dove uno per salvarsi il culo (e la casa) deve andare a lavorare a Francoforte; dove le fabbriche in cui lavorava la metà della città ora sono ruderi cadenti e spettrali, come le cattedrali del Medioevo dopo un’invasione o una pestilenza; dove uno può anche morire in casa e nessuno se ne accorge per giorni e giorni.  Ma lo fa senza gridare la protesta, senza alzare il pugno al cielo come Tommy Smith alle Olimpiadi di Città del Messico, senza inalberare bandiere. Anzi… in modo fin troppo didascalico, prende le distanze dall’esasperazione dello scontro, non lo nega e non la nasconde, dice che c’è ed è giusto e normale che ci sia, ma lo lascia ad una dimensione di ribellione individuale, alla rabbia covata a lungo e sfogata, quasi per caso e per l’istinto di un attimo, in un assalto alla polizia durante un corteo… E in quella scena in cui Rico (Accorsi) spiega al cronista come è andata (“per la verità siamo stati noi a caricare i poliziotti”) c’è anche, forse, in sottofondo, una citazione pasoliniana. Quella sui poliziotti figli di operai e contadini e i manifestanti figli di papà, dopo i fatti di Valle Giulia nel ’68…

Ripeto, forse un po’ troppo simile a Radiofreccia, per ambientazione, dialoghi, monologhi, contesto, ma comunque un film con una fotografia eccellente e un uso sapiente della telecamera. Un film abbastanza rock e quasi teatrale (le scene girate in esterno sono poche e piuttosto buie). Insomma da vedere. A  me è piaciuto.

Un amico mi ha detto: discutibile la scelta di usare le canzoni dell’album Made in Italy come colonna sonora. Forse. Ma il film da lì parte e intorno a quelle gira. Perché svicolare?

Mentre guardavo il film pensavo: mi piacerebbe sapere che ne pensano i 30-40enni, ovvero il popolo del Liga, quello dei concerti, quelli che ai tempi di Radiofreccia erano poco più che ragazzini.  Ma Liga di anni ne ha quasi 60, è più della mia generazione che della loro. Non sembra, magari, ma è così. E questo spiega un sacco di cose.

m.l.

 

 

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