QUELLO SCRIGNO DI MEMORIA CHE E’ IL MUSEO DEL DIARIO DI PIEVE SANTO STEFANO

NON FATELI MANGIARE AI TOPI DEL DUEMILA! Queste le parole scelte da Saverio Tutino nel 1984 per invitare gli italiani a credere in quella impresa che, partita come una scommessa cui pochi diedero inizialmente credito, oggi è diventata una realtà incredibile e per tanti versi miracolosa: l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano (Arezzo) che ha nel Piccolo museo del diario la sua appendice espositiva.
Il “paese del diario” è un borgo di 3000 cittadini in carne ed ossa e 10000 di carta, ci dice Luigi Burroni, la straordinaria guida che ci è toccata in sorte stamane, quando abbiamo finalmente concretizzato – io e Giustina Oriental Caputo– l’antico comune desiderio di andare a visitarlo.
Ma Luigi Burroni è molto più di una guida, è un uomo che ha fatto del museo una vera e propria missione, cui dedica con dedizione commovente le sue energie e la sua competenza. È lui che ci ha regalato un racconto-colloquio durato un’intera mattinata ma che poteva essere inesauribile, tante e di tale intensità sono le storie racchiuse nello spazio ristretto di un “piccolo” museo che richiede un lavoro ciclopico e certosino da parte dei pochissimi addetti.
“Avete un diario nel cassetto? Non lasciate che vada in pasto ai topi”, così pregava il giornalista e scrittore Tutino nelle inserzioni che pensò di pubblicare sui giornali quando ebbe l’idea di proporre il progetto all’allora sindaco Albano Bragagni – che ha poi “regnato” per trent’anni sul paese di Fanfani (il cui ritratto campeggia nella sala consiliare), mai facendo venir meno il suo sostegno all’impresa – il quale gli concesse una stanzetta nell’unico posto di Pieve Santo Stefano risparmiato dalle mine tedesche: il Palazzo Pretorio, e da lì ebbe inizio tutto: il paese la cui memoria era stata brutalmente cancellata fu consacrato alla Memoria.
Ma non si immagini che alla crescita miracolosa delle acquisizioni – che iniziarono a fioccare ininterrottamente anche grazie al Premio istituito nel 1985 per conquistare un po’ di visibilità – abbia corrisposto una conseguente crescita dei finanziamenti: La Fondazione Archivio Diaristico Nazionale onlus (Archivio dei diari) ha “ben due”dipendenti, gli altri collaboratori a vario titolo lavorano a partita Iva, poi ci sono i tanti volontari, qualche ricercatore, studenti che fanno le tesi; “ci arrangiamo, come si dice in Italia”, dice Burroni, marito della ex direttrice Loretta Veri – che ora si occupa di ricerca fondi – e ha lasciato il posto all’attuale direttrice Natalia Cangi che si prodiga nelle mille attività che il suo ruolo richiede (e anche in quelle che non le spetterebbero).
Le collaborazioni con Enti e Istituzioni esterne sono tante, Rai Storia in primis, e la Sacher di Nanni Moretti che un giorno è arrivato, si è innamorato del museo e ha girato con giovani registi allora emergenti “I diari della Sacher”, sette film-documentario presentati a Locarno nel 2002.
Il museo è espressamente dedicato alla scrittura privata, un materiale delicatissimo che racchiude le vite di migliaia di persone nelle forme di diari, epistolari e memoriali, e tutto insieme racconta la storia del nostro paese nei suoi passaggi cruciali. Ci sono circa 500 testimonianza sulla Grande Guerra, più di 3000 sulla Seconda guerra mondiale, 1200 sulla Grande Emigrazione, 500 di migranti in arrivo oggi, 150 del periodo del Covid, molte di giovani, e tantissimo altro.
Il materiale è tutto catalogato e digitalizzato, si presta perciò ad una prima ricerca online, ma il materiale fisico è tanto e l’Archivio è ormai insufficiente, nonostante il prodigarsi dell’Amministrazione comunale. C’è un progetto, avviato dal Ministero della Cultura ai tempi di Franceschini, e non smentito al momento da Sangiuliano, di finanziare una nuova sede in cui possano trovare alloggio insieme l’archivio, la biblioteca, il museo e gli uffici. La speranza è davvero grande.
I curatori hanno molto chiara l’idea che quelle che abitano negli armadi sono vite private, e le volontà di ciascuno vengono religiosamente rispettate: c’è chi chiede di rimanere anonimo o di cambiare nome, oppure richiede la lettura del materiale consegnato solo dopo un certo lasso di tempo.
Ogni anno a settembre si svolge il “Premio Pieve Saverio Tutino” (quest’anno ricorre il centenario della nascita del benemerito fondatore cui il museo dedica una bella parete). La selezione preliminare dei testi presentati è fatta da gente comune e coinvolge tanta parte del paese che diventa per mesi un grande laboratorio di lettura, fatto straordinario che ha contribuito a cambiare in parte i connotati del paese stesso; gli otto finalisti sono poi letti da grandi nomi dell’editoria. Il vincitore diventa un libro pubblicato da Terre di Mezzo. Altri testi vengono poi pubblicati anche da altri editori, tra cui Einaudi o il Mulino.
La nostra preziosa guida ci ha poi raccontato il processo che ha portato a scegliere per l’allestimento delle sale lo studio di Architettura e Design Dotdotdot che ha trovato nella lettura del libro di Mario Perrotta, “Il Paese dei diari”, ispirazione per offrire al visitatore un’esperienza multimediale coinvolgente ed immersiva che evoca, tra le altre cose, il brusio, il parlottio che regna nel corridoio dei cassetti della memoria, in cui si immagina che le persone che riposano lì parlino tra di loro. Il museo, inaugurato dieci anni fa, è ancora perfettamente funzionale e in grado di restituire la dimensione intima e raccolta che serve a predisporre all’ascolto.
Il percorso di visita vero e proprio si snoda in un corridoio e tre sale, di cui le ultime due dedicate in esclusiva a due opere eccezionali. Le voci e le pagine delle donne e degli uomini che continuano a vivere a Pieve arrivano al visitatore attraverso l’apertura dei tanti cassetti della memoria e così anche noi abbiamo ascoltato, ci siamo commosse, abbiamo sorriso, abbiamo gioito per i racconti di “Quando Torino era capitale” di Luigi Re o per il giovane Sisto Monti Buzzetti, morto in prima linea il 9 giugno 1917, due giorni prima di compiere 21 anni (“Scusate la calligrafia”); per il diario di Lireta, ragazza albanese (“Lireta non cede”) o per le simpatiche annotazioni di uno spensierato adolescente nella Romagna degli anni ’60 (Massimo Bortolotti Stella) o per i ben più terribili pezzettini di carta infilati nei vestiti usciti dalla prigione di Via Tasso nei due mesi che precedettero il massacro delle Fosse Ardeatine in cui cadde anche il diciassettenne Orlando Orlandi Posti (“Roma ‘44”). E ancora, per la storia di Luisa T. segregata in campagna che scrive e poi distrugge per paura del marito (“Caro quaderno”, uno dei racconti dei Diari della Sacher).
Un vero e proprio jukebox della memoria riproduce storie di adolescenti vissuti in varie epoche che ricostruiscono 200 anni di storia italiana e un trittico fornito di schermi che mostra video realizzati appositamente in funzione di alcune storie.
Le ultime due sale meritano da sole la visita: la prime è quella dedicata a Vincenzo Rabito, un ragazzo siciliano del ‘99, semianalfabeta che decise a 70 anni di raccontare la sua vita, ingaggiando una guerra di sette anni con la macchina da scrivere che produsse 1027 pagine che raccontano con una verve incredibile 50 anni di storia italiana. Il lavoro è stato pubblicato da Einaudi (“Terra matta”) diventando un vero caso editoriale. Avevo già dedicato alcuni anni fa un post a questo lavoro straordinario:questo il link https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=2222508784693858&id=100008042734928
Nell’ultima sala l’impatto del prodigioso lenzuolo di Clelia Marchi, consegnato personalmente dall’autrice, è indescrivibile. Un lavoro che ha del miracoloso, scritto a mano da una contadina che ha fatto la seconda elementare e che ha scelto il lenzuolo più prezioso del suo corredo per rivolgersi al lettore e raccontargli la sua storia senza infingimenti (“Gnanca na busia”), dopo la morte dell’amatissimo marito.
Da questa autentica esperienza immersiva siamo uscite come da un cunicolo spazio-temporale, con un’impronta profonda destinata a rimanere impressa nella mente e col desiderio e il proposito di tornare, di raccontare (questo si sarà capito…), di divulgare la conoscenza di questo grande patrimonio sconosciuto ai più. Andate a Pieve Santo Stefano, vi piacerà moltissimo!
Lucia Annunziata
”Non fateli mangiare ai topi del duemila” è una espressione che mi piace moltissimo e che purtroppo riconosco vera. E’ in questo senso che ognuno sente la propria storia e vive le angosce di dover lasciare questo mondo, la storia della propria famiglia, la storia di cui è stato spettatore ed anche la storia che ha visto presentarsi nel mondo di cui ha fatto parte, ma anche quella che conosce per bocca degli altri. Il primo riferimento che viena da fare è quello relativo alla propria cerchia personale per poi passare da quei valori non abbandonando mai il fatto principale che tutto questo possa essere patrimonio anche di altri.Perchè la funzione della storia e della stessa vita è questa: Produrre valori che servano agli altri, un mestiere difficilissimo al giorno d’oggi, quasi abiurato e che fà dell’ uomo un essere civile, ma anche proprio per questo messo talvolta caparbiamente al centro dell’impegno a tramandare i propri valori, le cose in cui ha creduto e le cose che ha visto e che segnano il suo patrimonio,soprattutto quello morale.Ne sò qualcosa quando penso alle cose, ai fatti, alle documentazioni ed ai libri che sono stati compagni della mia vita e di quella di tutta la mia famiglia.Ma mi si creda- a scanso totale della volontà di sopravvivenza in qualche forma di ricordo lasciando un epitaffio di vita vissuta ai posteri in qualche modo, ma che invece anche nell’illusione che tutto questo possa servire anche agli altri.Potrebbe benissimo essere anche una forma di presunzione e di egoismo non lo nego,anche se credo che sia un sentire comune a molti.E’ diventato l’irrefrenabile cruccio della mia vita che col passare degli anni è andato aumentando talvolta raggiungendo- in presenza dei segni dei ”possibili topi del duemila”-anche connotazioni e confini che oso pensare quasi parossistici,anche ben sapendo che esistono ben più patrimoni di vita e di esperienze incommensurabilmente più grandi e corposi di quella dell’esperienza mia personale,ma che in questo caso si riversa anche materialmente parlando nel contenuto del mio archivio storico e fotografico e quindi anche segnatamente in ciò di cui sono stato spettatore.Fin’ ora non ho trovato la soluzione e chissà mai se la troverò. E’ quasi una ricerca spasmodica da salvare, da affidare in mani consapevoli,è il risultato di ciò che mi è stato insegnato e senza spocchia nè boria sarei dispiaciuto che andasse disperso per farlo invece al contrario diventare una specie di ” patrimonio pubblico”perchè credo che possa servire anche agli altri.E’ una presunzione ? Forse si, me l’ho sempre chiesto tale interrogativo. Quell’espressione ”Topi del duemila” parla chiaramente e parla della tipologia del mondo che viviamo oggi, dominato dalla continuità della trasformazione incessante ed anche della sua velocità, della deflagrazione degli ideali e della continua insicurezza del vivere. Ecco i veri ”topi del duemila”, ci hanno raggiunto, ed è quasi come il racconto raccapricciante descritto in un romanzo letto tantissimo tempo fa dove si parlava di minatori sopravvissuti allo scoppio di grisù e bloccati sotto terra in una miniera degli Stati Uniti che prigionieri in una galleria dovevano scappare alle orde di topi impazziti ed affamati che uscivano dalle gallerie crollate a migliaia e migliaia liberati dallo scoppio e che per scampare alle orde dei topi affamati questi minatori superstiti salirono sulle volte dei tronchi che sorreggevano le gallerie mentre le migliaia di topi affamati cercavano di scalare i pali delle volte cercando di raggiungerli.I topi che venivano tirati verso il basso dai calci dei minatori venivano divorati da quella marea di loro simili che si voleva impadronire delle vite di quegli uomini. Ecco, una scena apocalittica se ci pensiamo un momento, è come una macchina automatica che si proietta nel futuro e che tutto distrugge e nulla fa rimanere ad epitaffio della vita.Abbiamo conquistato la scenza e la tecnologia, le abbiamo applicate alle nostre vite, ma come i topi delle gallerie crollate sotto l’esplosione del grisù abbiamo liberato forze che si dirigono contro di noi e che alla fine se non usciamo da tale incubo saremo sopraffatti a causa di ciò che abbiamo prodotto. ” I topi degli anni duemila” sono tutte quelle condizioni che si ciberanno di un pasto che noi pensavamo fosse succulento ma che forse sarà distruttivo ed annienterà sia noi chè anche i topi se continueremo a scendere nelle ”gallerie” dalle quali ci dovremmo invece liberare.” I topi del duemila”ci hanno già fatto vedere concretamente le loro mefitiche potenzialità ed allora scegliamo la ragione.Non ci farà profitto e non ci guadagnerà il proprietario della miniera ma ci guadagneranno i minatori, cioè tutti noi…..