COMUNI, UNIONI O FUSIONI?

di Fabio Di Meo
Parlare di riforme degli enti locali nei termini di un derby tra “unionisti” (fautori delle Unioni dei Comuni) e “fusionisti” (fautori delle fusioni di Comuni) è esercizio forse divertente, ma piuttosto sterile. Premetto di credere molto, come andrò a spiegare, nelle Unioni dei Comuni, ma non per questo credo sia utile alzare barricate contro le fusioni, né al contrario farne la panacea di tutti i mali ovviamente.
Infatti nei casi di comuni con dimensioni insostenibili (sotto i 500 abitanti) o di realtà limitrofe comunali già unite di fatto per storia, assetti sociali e strutturazioni del tessuto economico, le fusioni sono un esito naturale, auspicabile, ovviamente se avallate da una pronunciamento popolare netto come quello che può avvenire attraverso un referendum. Ci sono situazioni peculiari in cui creare un unico comune da più realtà non solo non va a ledere nessun significativo sentimento di appartenenza comunitaria, ma anzi ne crea uno nuovo, di prospettiva, volontaristico, a cui i cittadini di quel territorio possono aggrapparsi per costruire un futuro migliore in termini sia di crescita economica che culturale.
Dunque vedrei le fusioni come auspicabili nel momento in cui diventano un naturale, spontaneo processo di evoluzione delle comunità, e sta alla politica comprendere con la necessaria capacità d’analisi dove queste condizioni sussistano o meno, per non rischiare da un lato di mancare un’opportunità per mancanza di coraggio o di visione del futuro, o sul fronte opposto di sbattere la testa contro volontà collettive o appartenenze identitarie che non si erano colte o si erano sottovalutate. E’ dalla lettura della storia di quelle comunità, dall’analisi del loro sentire profondo, che può emergere la coraggiosa decisione di fonderle sotto un unico comune, non nell’applicazione astratta di modelli organizzativi.
Se parliamo infatti di vantaggi nell’organizzazione dei servizi, di assetti istituzionali, di articolazione degli uffici, cioè se ci occupiamo di quelle situazioni in cui non c’è una naturale propensione sociale e culturale a fondersi in un unico comune, bensì si ragiona di esigenze di natura più strettamente operativa, amministrativa, legate al come risparmiare e migliorare i servizi, allora credo che tutti gli effetti virtuosi delle fusioni tra comuni possano essere raggiunti attraverso le Unioni di Comuni, evitando al contempo le conseguenze negative in termini di ?riduzione della partecipazione democratica e di cancellazione delle identità comunali
I costi nei piccoli comuni non sono certo riconducibili agli organi istituzionali, Giunta e Consiglio, visto che le indennità di Consiglieri e Assessori sono pressoché simboliche (un consigliere non arriva a prendere venti euro a seduta), e quelle dei sindaci esigue. E dopo le ultime riforme non si producono nemmeno costi indiretti significativi in termini di rimborso ai datori di lavoro per assenze istituzionali, visto che le ore a disposizione degli amministratori per il loro mandato sono pressoché nulle (un giorno e mezzo a settimana per i sindaci, nemmeno più l’intera giornata dei consigli comunali per i consiglieri). Se poi si ritenessero tali costi ancora troppi elevati, sarebbe sufficiente considerare tutte le cariche senza alcun onere, e avremmo eliminato il problema alla fonte. Introduciamo magari anche un contributo che gli amministratori versino per luce e riscaldamento, e l’argomento può essere chiuso.
Cancellare dunque le municipalità facendo di più Giunte e Consigli un unico Consiglio ed un’unica Giunta dentro un unico Comune risultante dalla fusione non produce risparmi tali da legittimare, di per sé, la cancellazione. O comunque gli stessi risparmi si possono produrre in altra forma.
La cancellazione di Giunte e Consigli produce invece una drastica riduzione della partecipazione democratica all’interno delle comunità. Si pensi attraverso un processo diffuso di fusioni in tutta Italia di quanto si ridurrebbe la partecipazione? complessiva. Significativo un titolo di qualche tempo fa dell’ansa: “fusi X comuni, scomparsi X politici”. Se poi l’obiettivo è dunque ridurre le persone che si dedicano alla cosa pubblica, come risposta all’inefficenza della politica, mi permetto di dissentire. Non si cedono pezzi di democrazia sull’onda di una pur giusta, ma storicamente contingente, critica all’inefficienza di una classe politica.
Visto che usa in questi casi guardare cosa accade in casa altrui, prendiamo il modello francese, Paese dal quale abbiamo tratto molti lineamenti ?del nostro assetto amministrativo. In Francia ci sono ben 36.000 comuni. Altro che le dimensioni medie dei Comuni italiani! Ma nessuno dei comuni francesi di piccole dimensioni svolge servizi singolarmente, bensì sempre in forma associata.
E qui arriviamo al punto: attraverso la “fusione degli uffici”, se così vogliamo definirla, cioè attraverso il trasferimento dell’esercizio delle funzioni comunali dentro le Unioni di Comuni, si possono ottenere obiettivi di razionalizzazione della spesa, di efficientazione degli uffici, di riduzione delle posizioni manageriali o para-manageriali. Ciò che davvero costa sono i servizi, sono i dipendenti, la struttura tecnica, non gli organi istituzionali. Senza contare che gli stessi dipendenti comunali possono trarre nuova capacità operativa, nonché una valorizzazione professionale, dal confronto diretto con realtà lavorative più ampie.
Dentro le Unioni i piccoli comuni possono trasferire l’esercizio delle loro funzioni, così da avere per farla breve un unico settore tecnico, un unico settore contabile, un unico settore affari generali e così via per tutti Comuni che fanno parte dell’Unione. Quanti se ne vuole. Per spiegare meglio: se fondendo più comuni si riduce all’unità la molteplicità degli uffici, lo stesso può avvenire dentro le Unioni, con lo stesso personale oggi operante nei comuni che si ritroverebbe a lavorare in un unico ufficio ricondotto all’Unione. E con i mezzi informatici di cui si dispone oggi senza nemmeno spostare fisicamente l’ufficio da dove risiede attualmente, né il cosiddetto back office (la parte di ufficio dove si predispongono le pratiche) ne il front office (lo sportello al cittadino).
A scanso di equivoci: gli organismi istituzionali delle Unioni già oggi non costano nulla, tutte le cariche sono svolte a titolo gratuito, Presidente, Assessori e Consiglieri. E tali organi sono composti dagli ?stessi amministratori dei comuni, sindaci e consiglieri comunali, a smentire che si tratti di un ente “altro” rispetto agli stessi comuni.
I comuni, intesi come comunità di cittadini liberi e consapevoli che ragionano e decidono su se stesse, mantengono però nel sistema delle Unioni la facoltà di esprimere un indirizzo politico, una volontà politica, attraverso i propri organi istituzionali che continuano ad approvare bilanci, regolamenti e atti d’indirizzo. Atti che poi l’ente Unione realizza tecnicamente, attraverso un’unica struttura amministrativa.
Le Unioni di Comuni possono inoltre svolgere altre competenze amministrative che invece oggi rischiano di allontanarsi dai cittadini. E’ in atto un processo di “regionalizzazione” di servizi che li allontanerà sempre più dalle comunità,. Le Unioni possono proporsi come ente che riceve funzioni sovracomunali aggiuntive rispetto a quelle svolte dai comuni singolarmente.
Poi non mi nascondo dietro un dito: perché tutto ciò si avveri occorre crederci davvero, occorre che i Sindaci siano disponibili a cedere un pezzetto dalla loro sovranità dentro qualcosa di più grande ed a combattere la battaglia contro le resistenze delle strutture comunali.
Ma in fondo le Unioni possono diventare lo strumento per una crescita culturale degli stessi amministratori, che attraverso la partecipazione alla vita dell’Unione nel tempo possono sempre più maturare la consapevolezza di rappresentare non solo il Comune dove sono stati eletti, ma un territorio più vasto. Una sorta di palestra permanente per una visione che superi i municipalismi senza rinunciare alle municipalità.
Perché nessuna osservazione é stata fatta in questo corposo articolo in ordine ai finanziamenti che i Comuni FUSI riceverebbero dallo Stato e dalla Regione, mentre invece in caso di semplice Unione ciò non avviene?
Perché non credo che si può acquistare con i soldi l’identità dei comuni per poi assoggettarli alle volontà di altri campanili o lucomonie della bassa etruria
E comunque gli incentivi economici devoluti ai comuni che accetteranno le fusioni arriveranno solo per alcuni anni…un amministratore serio o un politico che deciderà le sorti dovrà pensare alle generazioni future…Ed è per questo che occorre rendere corposi certi interventi…senza ridurli a degli hasthag…
Da incompetente totale quale io sono sull’organizzazione di quanto Di Meo ci mette di fronte col suo articolo che senz’altro va valutato molto bene prima di aderire ai viatici che portano a tale scelte, mi chiedo una semplice cosa da uomo della strada, che non credo sia volontà di semplificazione dei problemi e di riduzione di tutto a bianco o nero: ma un problema enorme veramente sia quello dell”assoggettarsi alla dipendenza di strutture provinciali e regionali fornitrici di servizi che interessano il pubblico nella sua totalità( visto che sono costi che i cittadini con quanto si prospetta loro non solo per un futuro immediato ma anche per un futuro a medio termine,siano in fortissima e progressiva ascesa) ed essendo -è inutile dirselo- il sinusoide dei costi fortemente in ascesa e dipendente totalmente dalla politica dei partiti che si assumono la decisione della redditualità, forza vera dello spolpamento dell’osso, perchè tali considerazioni direttamente connesse con il problema giuridico-amministrativo non trova spazio nell’analisi di Di Meo che così fatta sembra una analisi a se stante,scevra dai contenuti reali e dal significato dei bilanci preventivi di spesa degli stessi servizi di cui l’ente pubblico dispone, Magari- l’analisi dello stesso Di Meo identificativa e giusta- di aspetti che le problematiche pongono, ma che guarda caso fanno il loro riferimento alle identità culturali delle comunità in ballo quando si sa che nello stesso tempo”la cittadella inattaccabile” di quanto disposto dai partiti per i trattamenti delle scorie, dei reflui, delle partecipazioni del privato creato appositamente o delegato dal possessore pubblico di maggioranza, rendono i problemi praticamente irrisolvibili quando si parla della diminuzione dei costi dei servizi prestati ? Si tende a fare un panegirico teorico delle possibilità, ad illustrarne brevemente i contenuti amministrativi,giuridici e quindi sociali,dicendo alla fine che la luce sotto quale venga fatta l’azione riformatrice sia quella dei costi sopportati o da sopportare ma l’esame mi sembra che sia disgiunto da tutto l’andazzo che bolle in pentola e che si afferma anche nel momento stesso che stiamo scrivendo. Ma che tipo di esercizio è questo? Non sarebbe forse meglio pensare ad organismo sovraprovinciale e regionale da creare non certo per appropinquamento funzional-sperimentale, ma invece ex novo e controllato inevitabilmente dalla politica sì, ma anche da
consorzi di consumatori dei servizi ed anche da associazioni non create dalla politica partitica ma scevri da tutto questo, e che possano sovraintendere alla creazione di tali tipologie di servizi, facendo un alto là alla politica sottraendole l’osso polposo che la stessa ha creato appositamente per autoalimentarsi ?
Talvolta sembra contraddittorio che la politica che viene fatta in periferia sia sottoposta tutta -saltando le esigenze dei cittadini rispetto a i costi-che sono quelli che più interessano la gente, diciamolo francamente- ed il dualismo dei partiti che in periferia fanno i rivoluzionari e studiano le teorie ponendosi i problemi di soddisfare gli aspetti peculiari di ogni paese ( a parole)poi quando si va ad esaminare gli aspetti della spending review, al centro si faccia passare tutto il contrario di quello che si pensa e si dice in periferia.
Sono questi gli aspetti che contano e che si posso prendere in prestito dall’esperienza di altre nazioni vicine, ormai sperimentate e funzionanti ad un livello di soddisfazione dei bisogni certamente più alto del nostro.Non credo vi sia bisogno di una rivoluzione totale che ponga contrasti fra campanili, ma di una riforma subitanea, generale, estesa e pesante che sia esente dalla famelicità partitica.Se non si esce da questa strozzatura tutto l’esame delle possibilità rischia di essere un puro esercizio accademico per poi alla fine rischiare di riconfermare il peggio( per il cittadino) e che anche oggi stenta molto a discernere ed a orientarsi in tale realtà dove sia l’interesse pubblico imprescindibile e dove cominci quello dei partiti.