LA LIBERTA’? UN CALCIO AD UN PALLONE. L’INCONTRO CON REMO RAPINO CONFERMA LA “LINEA” DEL FESTIVAL ORIZZONTI

lunedì 07th, agosto 2023 / 14:57
LA LIBERTA’? UN CALCIO AD UN PALLONE. L’INCONTRO CON REMO RAPINO CONFERMA LA “LINEA” DEL FESTIVAL ORIZZONTI
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CHIUSI – Parlare di calcio per parlare d’altro. Anche d’altro. Lo facciamo anche noi su queste colonne ogni tanto. Lo hanno fatto in tanti, anche gente molto più brava di noi. Da Osvaldo Soriano ad Edoardo Galeano, da Federico Buffa e Darwin Pastorin, da Brera a Baricco. Perfino il premio Nobel per la letteratura ebbe a dire una volta “Tutto quello che so della vita l’ho imparato dal calcio”. Gramsci ha parlato del calcio e Togliatti chiedeva sempre cosa avesse fatto la Juve…

Se ne è parlato anche ieri al festival Orizzonti di Chiusi, nell’incotro Remo Rapino, autore di “Fubbàl”, che è la traduzione in lancianese del termine Futball. Sì perché Rapino è di Lanciano, provincia di Chiesti. Abruzzo. Italia. Non è sudamericano. Ma del calcio ne parla anche lui come Soriano e Galeano. Con nostalgia, con passione, ma anche con l’occhio a cosa c’è spesso dietro le storie, anche strane, di certi calciatori, dietro certe partite. E così Rapino ha raccontato la genesi del suo libro sul calcio, ma anche altri… Ha raccontato storie di calciatori sgangherati e di campi sgangherati, polverosi, senza erba. E di calciatori e allenatori che pur essendo calciatori e allenatori hanno fatto azioni, gesti, scelte difficili, a volte  consapevolmente, a volte meno. Oppure non hanno fatto ciò che avrebbero voluto fare. Ha raccontato storie di calcio e dintorni che sono anche storie di emarginazione e di marginalità, di solitudini, di resistenza. La Resistenza quella vera con la R maiuscola, contro i nazifascisti fra il ’43 e il ’45… O contro qualche dittatura sudamericana, appunto, come quella di Pinochet in Cile o di Videla in Argentina…

Ha parlato di calciatori e allenatori coraggiosi che al funerale di Neruda gridarono “Estoy!” (cioè “io sono qui!”)  ai generali che il poeta lo fecero morire…

Ha parlato di calciatori, diventati famosi, che avevano il padre operaio e quasi si vergognavano dei soldi che prendevano. E la prima cosa che fecero con quei soldi fu comprare una lavatrice e il frigorifero che in casa ancora non c’era… Giocatori che andavano ad allenarsi a San Siro con il tram, insieme agli operai della Magneti Marelli…

Ha raccontato storie di resistenza (o resilienza) al Dio Denaro, alle logiche del mercato. Ha parlato di sogni e di libertà, la libertà che sta anche nel dare un calcio ad un pallone su un prato o in un colpo di tacco…

Il calcio dunque come metafora della vita e della lotta per avere ragione, ma anche come espressione di fantasia, di libertà, di speranza e talvolta – non di rado – anche come momento di riscatto, di una nazione, di una città, di un popolo…

Tutto questo Remo Rapino lo ha raccontato bene. Si è capito bene anche da che parte sta lui. Nel 2020 ha preso il Premio Campiello e siccome dietro al Premio Campiello – ha sottolineato – c’è la Confindustria, quasi se ne è scusato.

Insomma anche Rapino, come Claudio Morici e altri “incursori” transitati per il festival chiusino, è “uno di noi” di quelli che la pensano, la raccontano, la vedono come noi. E non è solo una questione generazionale, perché per esempio Morici è più giovane. E’ una questione di sensibilità. Di letture. Di approccio culturale, prima che politico, alle questioni. Ci fa piacere che il Festival Orizzonti pur cambiando vari direttori artistici abbia mantenuto una sua coerenza e la barra in una certa direzione. Il che non vuol dire proporre “cose di sinistra”, ma proporre cose che fanno ragionare, riflettere, e che raccontano la realtà anche attraverso il teatro, la danza, la scrittura…

Adesso che il festival ha chiuso il sipario si può dire che questa del 2023 non è stata un’edizione banale. Si è vista una buona partecipazione agli spettacoli serali, un po’ meno agli eventi collaterali (come l’incontro con Rapino e altri. Peccato). La città ha risposto, ma forse poteva anche rispondere meglio, partecipando un po’ di più al clima generale del festival, non solo agli eventi più rilevanti. Non c’è stato un “grande nome”, di quelli che fanno sold out facilmente, la Fondazione e il direttore Brinzi hanno scelto un’altra strada, meno agevole, più tortuosa, con artisti meno noti al grande pubblico, ma tutti legati da un fil rouge, da un certo approccio alle questioni, da una “linea comune”. E anche qui può sembrare una questione di budget (la necessità di tenere bassi i costi, che è un problema reale) ma c’è anche altro: c’è – ci è sembrato di capire – anche la voglia di seminare, di far crescere germogli in loco coi laboratori, di far diventare Chiusi un luogo in cui anche i professionisti possono venire a sperimentare, a costruire i loro spettacoli, a studiare e a confrontarsi. Soprattutto, crediamo, c’è la voglia di dare un’anima al festival, un’anima magari di nicchia, ma che sia riconoscibile. D’altra parte anche il Cantiere di Montepulciano ha proposto per anni direttori d’orchestra, musicisti e teatranti che sono diventati famosi (anche molto famosi) dopo, grazie anche al Cantiere…

m.l.

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