CHIUSI, SE METTI IN MOSTRA IL BATTAGLIONE AZOV NON PUOI PENSARE CHE NESSUNO CHIEDA SPIEGAZIONI

lunedì 01st, agosto 2022 / 18:11
CHIUSI, SE METTI IN MOSTRA IL BATTAGLIONE AZOV NON PUOI PENSARE CHE NESSUNO CHIEDA SPIEGAZIONI
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CHIUSI – Nel pomeriggio di ieri, domenica 31 luglio, si è svolta la presentazione della Mostra “Questo è tutto – 86 giorni nell’acciaieria Azovstal” di Dmytro Kozatsk, nome di battaglia “Orest”, soldato combattente del Battaglione Azov che era nei sotterranei bunker dell’acciaieria sotto assedio e che adesso, dopo la resa, è prigioniero dei russi.

La mostra è indubbiamente una iniziativa controversa. Non a caso anche noi, su queste colonne avevamo chiesto a più riprese che fosse accompagnata da qualche spiegazione. Non solo e non tanto da parte del cinefotoclub i Flashati che l’ha proposta, quanto da parte di Comune e Fondazione Orizzonti che l’hanno accolta e sostenuta e inserita nel programma del Festival estivo.

La spiegazione richiesta non era una dichiarazione di antifascismo o di distanza dalle posizioni filonaziste, questo almeno per noi era ed è scontato, si chiedeva piuttosto una spiegazione su cosa sia il Battaglione Azov, divisione prima paramilitare volontaria ultranazionalista, poi inserita nella Guardia Nazionale Ucraina, che ha spesso mostrato simpatie e simbologie neonazi e dal 2014 si è macchiata di crimini feroci contro le popolazione russofone del Donbass e anche durante  conflitto cominciato con l’invasione russa del 24 febbraio, è stata accusata di aver usato scudi umani e di altre nefandezze. Questo per evitare confusioni e semplificazioni e soprattutto per evitare la sensazione che il Comune di Chiusi e il suo festival potessero prestarsi a fare propaganda al battaglione Azov, cioè ad una componente molto chiacchierata della resistenza ucraina.

Nessuno ha messo in discussione la legittimità della mostra o il valore fotografico e documentale delle immagini esposte.  La spiegazione, ieri, nella presentazione della mostra, diciamo che in qualche modo è arrivata. Soprattutto dai flashati a dire il vero. La Fondazione si è tenuta sull’aspetto “artistico” dell’evento, mentre la Vicesindaca Valentina Frullini a nome dell’amministrazione comunale poteva far meglio: si è limitata a dire che “non accetta e non accetterà strumentalizzazioni” e ha ribadito la lontananza dell’amminisrazione stessa da posizioni neonaziste o neofasciste, portando come “prova” la collaborazione con l’Anpi… Ma su questo chi aveva dei dubbi? Nessuno. La spiegazione richiesta era un’altra, però: era che fosse messo bene in chiaro che cosa si stava mettendo in mostra. Ma anche la vicesindaca è alla prima esperienza politica. Forse non è molto abituata al contraddittorio a volume alto. E si è tenuta bassa…

Il fatto è che la mostra è composta di immagini che non sono foto di un reporter di guerra, ma di un soldato combattente di un battaglione che è notoriamente (per sua ammissione e per immagini orgogliosamente mostrate) di impostazione e ideologia neonazista. Un soldato che ha quella divisa dal 2014, da quando gli Azov facevano il lavoro sporco nel Donbass, non si tratta di un volontario arruolatosi per rispondere all’invasione russa.

Sono sì foto che documentano una situazione drammatica, ma sono nello stesso tempo foto agiografiche, lo dice l’autore stesso, tendenti a mostrare il volto umano e la sofferenza di quei soldati. A farli passare nell’imaginario collettivo come eroi romantici e vittime sacrificali.

E il fatto che in nessuna delle foto esposte (ma nemmeno in altre che il fotografo-soldato Orest ha messo in rete affinché chiunque potesse pubblicarle) compaiano simboli, mostrine o tatuaggi con richiami al nazismo è quantomeno singolare, perché quando i soldati del Battaglione Azov si sono arresi e sono usciti dal bunker di Azovstal con le mani alzate e i russi li hanno denudati e perquisiti, quei simboli sono comparsi a centinaia, sulle divise, sulle braccia, sui petti villosi, sulle schiene.

Strano che nelle foto di Orest non ce ne sia nemmeno uno. Cristian Angeli e Stefano Raimondi dei Flashati hanno spiegato questo aspetto, dicendo che loro non hanno fatto alcun ritocco, che le foto sono state messe in mostra così come Orest le ha messe in rete. Il che vuol dire che è stato lo stesso autore a fare in modo che quei simboli non si vedessero o a scegliere accuratamente come soggetti delle foto, soldati che non li avevano addosso.  E questa, data la natura del Battaglione Azov, è una “stranezza”, anzi appare abbastanza evidentemente come un tentativo di “camuflage”, per trasmettere al mondo immagini più rassicuranti e non “sconvenienti”.

Questo particolare che è politico, non tecnico, del quale si è parlato nel corso della presentazione di ieri, in qualche modo toglie immediatezza e valore all’aspetto documentale delle foto stesse, facendole diventare ancora di più agiografiche e di propaganda (per scelta dell’autore, non dei promotori della mostra ovviamente).

A maggior ragione, dunque, sarebbe stato opportuna una valutazione più attenta e una più puntuale contestualizzazione e spiegazione della mostra da parte degli enti pubblici che la sostengono. Così come sarebbe stato opportuno un ragionamento sul ruolo che il Battaglione Azov ha avuto nella guerra in corso e negli 8 anni precedenti nel Donbass. Ci dispiace che questo non ci sia stato. E a giudicare dai commenti sui social non dispiace solo a noi. Ieri si erano espressi i Podemos, che lo hanno fatto anche alla presentazione. Alcuni come Fausto Pacchieri, segretario Anpi, o Luciano Fiorani esponente della lista Chiusi Futura, Enzo Sorbera di Sinistra Civica ed Ecologista,  hanno usato toni piuttosto duri, qualcun altro si augura che una bella grandinata quelle foto se le porti via…

Non sappiamo se la divergenza di opinioni sulla mostra o meglio sull’atteggiamento del Comune sulla mostra, porterà ad ulteriori mal di pancia di Possiamo all’interno della coalizione di maggioranza. Di sicuro è un altro casus belli

Detto questo le 10 foto esposte in vari punti del centro storico (ognuna ha un Qr Code con la mappa e alcune informazioni generali sulla mostra) restano immagini che raccontano sia pure parzialmente e da un punto di vista preciso una situazione. I Flashati hanno precisato che nel selezionare le immagini hanno escluso quelle più crude e più cruente, perché essendo esposte per le strade e non in un luogo chiuso sono visibili a tutti, anche ai bambini.  La scelta ci sembra sensata. Noi siamo perché siano esposte. Adesso, grazie anche al dibattito che si è creato, al di là delle spiegazioni più o meno esaurienti dei promotori, la questione è comunque più chiara. Ed è anche più chiaro che cos’è il Battaglione Azov, se qualcuno non lo sapeva. Non solo: il dibattito è anche “pubblicità gratuita” alla mostra che ne trarrà giovamento in termini di visitatori. Non si può dire che sia passata inosservata. Resterà esposta fino al 2 ottobre. Molto oltre il festival Orizzonti.

Certo, se uno mette in mostra foto scattate da un soldato del Battaglione Azov, non può pensare che nessuno chieda qualche spiegazione. E non può neanche trincerarsi dietro il mero fatto fotografico-tecnico-artistico… Chi pensasse una cosa del genere sarebbe quantomeno ingenuo o fuori da mondo. Uno che vive a Paperopoli, insomma. Chiusi rispetto ai tempi di Porsenna è un po’ decaduta, ma non è Paperopoli.

Dire che “questa è una mostra fotografica, non si deve buttare in politica!” è una cazzata, perché non stiamo parlando di una mostra di mucche chianine, o di paesaggi… Sarebbe come esporre foto dello spogliatoio della Juventus dopo una disfatta in Champions League, scattate da Bonucci, e dire “qui però non si parla di calcio, soffermatevi sulla luce caravaggesca che picchia sulla maglia sudata e sporca di Vlahovic…”.

Che il Comune di Chiusi, la Fondazione Orizzonti siano a favore della resistenza Ucraina è scontato come l’adesione ai principi antifascisti… Il battaglione Azov fa parte della Resistenza Ucraina, ma è una realtà troppo controversa per non suscitare reazioni. E non c’è bisogno di essere filorussi per avere reazioni o perplessità sul battaglione Azov.

Allo stesso modo, però, quelle foto di soldati, alcuni feriti e mutilati, che stanno per arrendersi e non sanno che cosa li aspetta, che fine faranno, sono immagini di uomini e donne sull’orlo di un destino incerto. Sono persone che – simboli nazi spariti o meno – oggi noi non sappiamo se sono ancora vive. Alcuni di quei militari potrebbero essere rimasti uccisi nel bombardamento del carcere di Elenovka dove erano prigionieri, qualche giorno fa… Bombardamento opera probabilmente dell’esercito ucraino che avrebbe evitato così che potessero parlare e rivelare ai russi cose sconvenienti. I russi non avevano alcun interesse a eliminare una possibile merce di scambio e fonti di informazioni preziose.

Sia pure da un punto di vista parziale le foto di Orest raccontano anch’esse l’assurdità e la ferocia della guerra. Il fatto che gli Azov si siano arresi forse a molti, anche in Ucraina, non è piaciuto. Invece quello è stato un atto di coraggio e di buon senso. Di umanità ritrovata. Meglio un prigioniero vivo che un soldato morto.

Domenico Quirico, su la Stampa, tre giorni fa, scriveva che l’unica cosa che potrebbe fermare la guerra è uno sciopero dei soldati combattenti, come nel 1917, sia degli ucraini che dei russi: “La fine rivoluzionaria di questa guerra criminale avverrà quando i combattenti si ribelleranno, insieme, alla sofferenza. Sono loro che gettando contemporaneamente i fucili possono rompere il cerchio dei pregiudizi, degli interessi, dei simboli vani, delle bugie. Sono loro che rifiutando di combattere spazzeranno, con il soffio del loro possente respiro di vittime, di sacrificati, il cerchio degli interessi che a Mosca e a Kiev non sono i loro”. Sarebbe certamente un gesto salvifico e davvero rivoluzionario. Ma lo sciopero dei combattenti sarebbe contro i loro eserciti e i loro governi, chissà se ne uscirebbero vivi.

L’esercito italiano nel 1917 gli “scioperanti” li fucilò…

m.l. 

 

 

 

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