“UNA RAGIONEVOLE FELICITA'”, IL TEATRO CIVILE, FILOSOFICO, QUASI TEOLOGICO DI SILVIA FRASSON SULLE RIVE DEL TRASIMENO

venerdì 02nd, luglio 2021 / 16:09
“UNA RAGIONEVOLE FELICITA'”, IL TEATRO CIVILE, FILOSOFICO, QUASI TEOLOGICO DI SILVIA FRASSON SULLE RIVE DEL TRASIMENO
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MAGIONE – C’era una volta…. O magari anche no. Il tempo di questa vicenda è un passato recente, recentissimo.

E’ il 30 di giugno 2021, ci troviamo a Montebuono, in cima ad un cucuzzolo ventoso nelle verdi campagne del  comune di Magione.

E’ l’ora del tramonto.

Una signora dai modi gentili accoglie con un sorriso delicato e familiare tutti coloro che varcano il cancello della maestosa villa ottocentesca,  oggi sede di una comunità di accoglienza chiamata Famiglia Nuova.

Dal giardino si scorge un panorama mozzafiato che dà su un versante del  Trasimeno  al centro del quale, ben visibile agli occhi, spicca l’isola Polvese.

Ci sono tante persone sul parterre della villa, c’è un palco e un’attrice: Silvia Frasson.

Ci troviamo infatti alla prima teatrale di  Una ragionevole felicità, ritratti di Leandro e famiglia, spettacolo da lei ideato e diretto (una produzione rumorBianco in collaborazione con Famiglia Nuova), incentrato sulla vita e l’attività di Don Leandro Rossi, teologo, scrittore e saggista. 

Allontanato dalla Chiesa per aver scelto la via dell’emancipazione delle coscienze su quei temi che negli anni settanta erano decisamente un tabù per il pensiero cattolico  (l’ utilizzo di droghe pesanti, l’omosessualità, l’obbligo alla castità prima del matrimonio), Don Leandro Rossi nato a Lodi nel 1933 è stato il fondatore della prima comunità territoriale  (poi ne verranno istituite diverse altre in Italia), volta all’accoglienza e al recupero degli ultimi, degli emarginati, di tutte quelle anime che  hanno incontrato durante la loro esistenza il male di vivere.

Egli, la notte di Natale del 1977, per concretizzare nel vero senso del termine la sua scelta evangelica, ospita nella sua casa il primo tossicodipendente giunto sino a lui per chiedere asilo, iniziando quell’esperienza di accoglienza e recupero di quelle “pietre scartate che sono diventate testata d’angolo”.

E’ proprio a queste rocce disfatte che Silvia Frasson conferisce voce ed insinuandosi tra le pieghe del dolore incarna ogni storia disperata, ogni atto d’amore donato, ogni ferita aperta. Ogni mano offerta volta a sostenere.

La pièce racconta gli anni della grande piaga sociale, dove il buco nero nel quale cadevano le anime e i corpi troppo spesso combaciava con i buchi sulla pelle.

Menti astratte, disperse, giovani in fuga sull’orlo dell’abisso e una figura forte, ferma, sicura, accogliente, amorevole, quella di Leandro Rossi, prima affermato teologo poi parroco degli ultimi.

Una mente capace e sensibile la sua, dove brillava la scintilla di Dio, del Dio di tutti, dei ricchi e dei poveri, degli ultimi, dei diseredati, dei malati terminali, degli omosessuali, di coloro che hanno, per sfortuna o per volontà, sbagliato ma che sono degni di amore e di avere in questa vita una possibilità di riscatto.

“Il Vangelo di Cristo deve essere accolto e messo in pratica sulle strade, tra la gente viva e non professato di fronte alle statue di gesso”, sosteneva.

Era ovvio che una mente così, in quel preciso momento storico, poteva scomodare a molti.

Leandro fu allontanato dalla sua funzione di parroco in quanto ritenuta incompatibile con le mansioni che doveva svolgere nella sua Famiglia Nuova,  questo il nome  che aveva scelto per la sua utopia possibile.

L’allontanamento dalla casa dei fedeli fu un duro colpo, ma il sacerdote  lo utilizzò  come strumento per comprendere pienamente chi, come lui, era stato emarginato dalla vita “bella”.

Il suo progetto di accoglienza cresce nel tempo e si avvale della cooperazione di molti spiriti buoni, l’Angiolina, l’Angioletta, un ex galeotto dall’animo nobile, un potenziale ingegnere (che poi ingegnere mai diventerà per dedicarsi agli ultimi) e di tutte quelle persone che hanno voglia di fare qualcosa di significativo per se stesse e per gli altri; che vedono nel prossimo il volto di Cristo.

Durante l’incalzante narrazione di Silvia Frasson il teatro gradualmente sfocia nella filosofia fin quasi ad arrivare alla riflessione teologica, dove molti sono gli interrogativi e poche le possibili risposte.

Quale è il vero volto di Cristo?

Dove risiede la più alta forma di amore?

L’unica risposta  va ricercata nella metafora delle pietre scartate. Ognuna di esse deve diventare la prima, la più importante; deve essere quella che sorregge tutta la struttura sociale.

Deve essere la testata d’angolo che consente a tutti quelli che gli gravitano intorno di mostrare il loro valore come esseri umani.

La povertà, risulterà essere la vera ricchezza, la chiave di volta che ci permette, una volta sul bardo, di dire chi siamo veramente e che cosa abbiamo fatto di buono in questa vita. E’ esattamente su questo che saremo valutati.

Così i mille colori della povertà, le sue tante facce, il volto del tossico, del carcerato, dell’omosessuale, del nero, del violentato, dell’affetto da HIV, del malato terminale che grida dal suo letto “OPERATRICEEEE” e la nostra capacità di accoglierli  e sostenerli, diventeranno nel tempo lo scrigno da mostrare di fronte al cospetto di Dio.

Ancora una volta Silvia Frasson spalanca le braccia sul palco facendo vivere Leandro, Oliviero il prete operaio, l’ingegnere mancato, l’Angiolina e l’Angioletta, l’ex carcerato e  tutti quei ragazzi naufragati che si sono sparati nelle vene quel mare bianco che prima solleva e poi uccide.

L’autrice in questa pièce non solo racconta una storia ma spinge anche chi la ascolta a volgere lo sguardo all’aldilà, poiché tutti prima o poi saremo chiamati ad attraversare quel bardo ed approdare ad un nuovo stato di coscienza.

Ci troveremo lì,  forse ancora prigionieri delle nostre paure ed illusioni e capiremo solo allora che ogni dolore vissuto, ogni lacrima asciugata, ogni vita ritrovata sono stati la via per  abbandonare l’ ego ed intraprendere la strada per il ritorno alla nostra vita divina.

Bisogna smettere di essere roccia e trasformarci in acqua che scorre.

Assecondare le esperienze e le assenze, le mancanze e le presenze ingombranti.

Seguire i ritmi della vita che non sono mai uguali per tutti.

Trattenere e salvare chi ha ancora  una manciata di tempo da spendere e accompagnare, aggirando la paura, chi invece sta evolvendo altrove.

Lasciare andare se serve, sostenere e trattenere quando è possibile e necessario, facendo tutto con umana  pietà e amore incondizionato, questa la sola possibilità che abbiamo per salvarci dal nulla e ritrovare la dimensione del sacro nelle nostre vite.

L’opera di Silvia Frasson il prossimo mese volerà a Lodi, sarà uno degli eventi della rassegna culturale Lodi al Sole e così Don Leandro Rossi insieme alla sua Famiglia Nuova torneranno con la loro umana carità a smuovere altre coscienze e a far germogliare nuovi semi.

Dimostreranno ancora una volta che l’amore autentico contiene gli elementi della gentilezza e dell’accoglienza, indispensabili per raggiungere una ragionevole felicità.

 Paola Margheriti

 

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