ORIZZONTI: “LA VITA SALVA” DI SILVIA FRASSON, UNA PIECE CHE NON SI PUO’ RACCONTARE, MA E’ ASSOLUTAMENTE DA VEDERE

sabato 08th, agosto 2020 / 16:39
ORIZZONTI:  “LA VITA SALVA” DI SILVIA FRASSON, UNA PIECE CHE NON SI PUO’ RACCONTARE, MA E’ ASSOLUTAMENTE DA VEDERE
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CHIUSI – Gentilissimo Direttore, a seguito della sua richiesta questa mail è per spiegarle il motivo delle mia impossibilità a scrivere sullo spettacolo La vita Salva di Silvia Frasson, andato in scena giovedì 6 agosto presso la tensostruttura di San Francesco a Chiusi Città.

 Non posso prendermi l’impegno di relazionare su questo lavoro, non  ne sono in grado. Immagino che questa mia presa di posizione le possa sembrare poco esaustiva per comprenderne realmente le ragioni, ma purtroppo è la verità assoluta. Lo spettacolo di Silvia Frasson non può essere commentato, o almeno non da me per il momento. (…)

E’ come se si volesse dare opinioni sulla bellezza e l’incanto che ha il chicco di grano quando germoglia o sulla forza spaventosa che ha l’oceano in tempesta perché volendo fare un parallelismo di questo si tratterebbe.

Lo spettacolo di Silvia Frasson può soltanto essere visto, non si presta a nessuna declinazione. Non è interpretabile. Ha la forza dell’eterno quindi è insindacabile.

Può sembrare azzardata questa affermazione ma le assicuro che non lo è.

Di fronte al candore della vita che diventa, davanti alla tragedia, alla pazienza che richiede l’attesa, di fronte al dolore più grande che si possa provare e davanti alla più alta forma di amore che si possa donare, non si possono trovare né usare parole.

Le opinioni, bello, brutto, ben fatto, ha una sua organicità, una valenza, non contano, non servono.

Tutto diventa inadeguato, riduttivo, minimo, insufficiente. Si può soltanto stare a guardare silenti, si può soltanto sentire, pregare se si ha fede o tacere in riverente silenzio se non la si ha, perchè quel testo, le sue parole, quelle persone ti entrano dentro e non le puoi imbrigliare  in categorie.

Non sono personaggi quelli immaginati da Silvia, siamo noi, io, lei, mio padre, i nostri vicini di casa.

Lo spettatore vede scorrere davanti ai suoi occhi frammenti di vite distanti ma concatenate da un tragico evento e non può che starsene lì inerme ad accogliere il turbine di emozioni che fuoriesce da quell’unico ed esile corpo sul palco, capace di alternare  al dolore straziante, il filo della speranza e la salvezza dell’amore.

E’ soltanto attraverso  un atto di amore estremo, professato di fronte ad un evento di massimo dolore, che tutte quelle anime incastrate insieme si salvano dal baratro.

Sulla scena completamente vuota e scura  Silvia Frasson scompare, è inesistente, lascia generosamente il suo posto non ad una serie di personaggi, ma ad essenze di caratteri reali, veri: Linda, il Dott. Cori, Celeste, la madre di Celeste, Giorgio, la madre di Giorgio, Marta e sua figlia, Il Dott. Bresci.

Il loro cuore al centro di tutto.

Quel piccolo muscolo involontario grande quanto il pugno della mano di chi lo ospita è il fulcro intorno al quale ruotano le loro vite straordinariamente normali.

Il corpo longilineo di Frasson, educato e composto nei movimenti, assorbe tutte quelle anime e le scaraventa nella mente dello spettatore fissandole in maniera indelebile e portandolo ad essere ognuno di loro, attimo dopo attimo, movimento dopo movimento.

Durante la rappresentazione tutti noi diventiamo la madre di Giorgio, quella di Celeste, Marta, il Dott. Cori, Linda; il loro dramma è il nostro, la loro speranza è la nostra, la loro vita ci appartiene.

Siamo esattamente ognuno di loro, di fronte all’imprevedibile che ci coglie, davanti alla vita che accade in tutta la sua tragica e indifferente bellezza e al cospetto della magia degli incastri ci troviamo a dire .” Tutto combacia, tutto torna nel progetto di Dio o degli dei, o dell’universo o di ciò che vogliamo che sia”.

Nella vita bisogna azzerare le nostre paure ed imparare a correre il rischio, ”Bisogna avere la forza del fiume che scorre” come grida la mamma di Giorgio,  dobbiamo imparare ad assecondare il dolore senza contrastarlo e credere profondamente che da qualche parte nell’universo qualcun altro ne raccoglierà i frutti trasformandoli in opportunità.

Bisogna avere la pazienza e la grazia di Celeste per credere sempre e fino in fondo che i sogni si avverano; qualche volta accade.

Bisogna avere il dono della pietà e la determinazione del Dott. Cori per depotenziare l’atto estremo della morte pensando che fa meno paura se la vita salva. Che fa meno paura se la vita salva!

Inoltre direttore c’è quell’immagine straziante e bella e pura e commovente e insostenibile di un braccio che non molla, che non vuole lasciare andare.

Di una mano che trattiene un corpo insieme al dolore e all’angoscia, rifiutandosi di dover dire addio. E lì allora non si può far altro che piangere a dirotto (che poi piangere nel silenzio che il teatro richiede è un casino, perché non puoi tirare su col naso e cercare i fazzoletti nella borsa, senza occhiali, diventa un’impresa impossibile che neanche Wonder Woman…).

Sì, nella pièce c’è questa lacerazione insostenibile  provocata dalla morte quando accade, quando è inaspettata, ingiusta e prematura.

C’è il dolore di quando si deve mollare la presa ma non si è pronti  ed invece bisogna trovare il coraggio di farlo, di abbandonarsi all’ignoto, all’imprevisto perché è soltanto così che le nostre vene potranno distendersi  e il nostro respiro attenuarsi per ritornare a vivere.

E’ assecondando l’eterno fluire delle cose che ci salviamo la vita.

Sono uscita dalla rappresentazione completamente sconvolta, arrivata a casa ho preso l’ascensore (ascensore e musica, due costanti anche nella pièce) e tutti quelle persone incontrate poco prima sulla scena sono salite con me. Il Dottor Cori, la mamma di Giorgio, Celeste; avrei voluto aiutarli tutti, avrei voluto provare ad alleggerire il loro dolore che poi era anche il mio.

Ho aperto la porta  e la luce della lampada di lettura mi indicava che mia figlia era ancora in soggiorno;  mio padre, sulla poltrona, stava leggendo La scienza in cucina di Pellegrino Artusi,  cercava una ricetta per il pranzo di domenica.

“Già tornata?”mi ha chiesto. Non sono riuscita a rispondere. Ho girato lo sguardo verso il divano e un gomitolo tutto rannicchiato e spettinato dormiva facendo penzolare un piedino scalzo fuori dal bordo. La gioia mi ha invasa. Ho cristallizzato, bloccato quell’istante per almeno un minuto.

Vedere la vita nella sua assoluta e preziosa normalità, immobile, lì pronta per me, perfetta da vivere, mi ha dato la consapevolezza di quanto a volte siamo immeritatamente fortunati e non ce ne rendiamo conto.

Ho continuato a pensare al Dottor Cori, alla mamma di Giorgio a Celeste e me li sono sistemati bene dentro l’anima, come fossero gli eredi del chicco di grano destinati a diventare pane per me: la morte fa meno paura se la vita salva. La morte fa meno paura se la vita salva. Ho ripetuto come un mantra .

Adesso capisce  perché Direttore non posso scrivere io su questo lavoro? Perchè non posso trovare le giuste parole per descrivere l’incanto.

Domenica 9 agosto alle ore 18:30 ci sarà la replica, si faccia un regalo, vada a vederla con la sua famiglia, perché se come diceva Dostoevskij “La bellezza salverà il mondo” di sicuro Silvia Frasson con questo lavoro ha dato il suo notevole contributo.

Paola Margheriti

 

 

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