CHIUSI: FESTIVAL ORIZZONTI, RIFLESSIONI A RIFLETTORI SPENTI

domenica 16th, agosto 2020 / 18:26
CHIUSI: FESTIVAL ORIZZONTI, RIFLESSIONI A RIFLETTORI SPENTI
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CHIUSI- E’ passata una settimana dalla fine del festival Orizzonti. A sipario chiuso e riflettori spenti proviamo a tirare un bilancio e a fare qualche valutazione di merito su quello che solo qualche anno fa veniva vissuto e presentato come il “momento di gloria” della città. Quando, nel 2017 la Fondazione (su input del comune) decise di abbandonare la strada sfavillante della gestione Cigni, tirando i remi in barca per evitare la bancarotta si aprirono le cateratte del cielo e non ci fu testata specializzata o di settore che non dipinse Chiusi come un fortino arroccato, che rinunciava al salto di qualità, alla ribalta nazionale  e internazionale, per tornare ai livelli di paesello povero di spirito e preda di pressioni oscurantiste, oltre che della ancestrale paura di spendere soldi in cose effimere… Pressioni e paure che ci furono, indubbiamente, ed ebbero il loro peso (pure troppo), ma quella scelta che sembrò un passo indietro, un ritorno a volare più bassi, consentì di salvare un festival che avrebbe potuto saltare del tutto e far saltare il banco del Comune…

E infatti negli anni 2017, 2018, 2019 e 2020 il festival Orizzonti c’è stato. E ha proposto comunque cose decenti.

Quest’anno si è messo di mezzo pure il Covid 19 e il direttore artistico Gianni Poliziani, alla sua terza “edizione” dopo quella dello sfortunatissimo Roberto Carloncelli, ha dovuto fare praticamente un miracolo per farlo il festival, con pochissimi soldi (10 mila euro circa) e tutte le restrizioni dettate dall’emergenza sanitaria.

Come scrivemmo al momento della presentazione del cartellone, è stato un festival di “sopravvivenza”, di… resistenza culturale. Per non perdere l’abitudine, per tenere la piazza. Per assicurare in ogni caso qualche serata culturale alla cittadinanza.

E, ultimo, ma non per ultimo, anche per dare respiro, visibilità e un palco ad alcune realtà teatrali del territorio, che hanno avuto modo, così, di mettersi in vetrina. Parliamo però di realtà teatrali non volontaristiche, ma professionali, cioè di attori, registi e autori professionisti o semiprofessionisti. E un festival che fa scoprire (o sottolinea) che il territorio produce anche realtà del genere, ovvero delle “gemme” teatrali non è cosa di poco conto. Come non è cosa di poco conto il fatto che un festival – anche in una edizione falcidiata e ridotta ai minimi termini – metta in vetrina “il lavoro culturale” che alcune figure fanno durante l’anno con i corsi per adulti, ragazzi e bambini. E se le “gemme” si chiamano  Livia Castellana, Silvia Frasson o Riccardo Lorenzetti, il lavoro di Alessandro Manzini, Irene Bonzi e Francis Pardeilhan costituisce il “giacimento” che può tenere viva la vena e dà coraggio a chi – anche a livello dilettantistico –  ha voglia di dire qualcosa o ha qualcosa da raccontare su un palcoscenico.

Certo, come dicevamo, quest’anno l’emergenza covid con le norme sul distanziamento e le misure di sicurezza (prenotazione preventiva ecc.) ha ambiato lo scenario, ha costretto l’organizzazione ad allestire spettacoli per pochi intimi. Tutto si è svolto alla Tensostruttura San Francesco (che questo giornale ha proposto di intitolare ad Ottiero Ottieri, il più grande scrittore che Chiusi abbia avuto, morto nel 2002), con spettacoli per 50-60 persone… Tutti hanno fatto sold-out, ma con quei numero di posti non era difficile.

Il luogo decentrato e “minimal” non ha certo aiutato a dare un’immagine forte del festival. Ha contribuito a tenerla sottotono. Ma a questo giro, di più non era possibile fare. Ma gli spettacoli sono stati tutti di qualità. Probabilmente niente che verrà ricordato come un evento dirompente. Niente di “sperimentale” o di “dissacrante”, Niente che abbia fatto “scandalo”, ma tutte performance artistiche di ottimo livello. Teatro vero. Mai vista una platea in lacrime come è successo per La vita salva di Silvia Frasson, per esempio. E la cosa in sé dà la misura della forza di quel testo e di quella interpretazione. Ma al di là di questo (dei singoli spettacoli abbiamo riferito in altri articoli), quello che vorremmo sottolineare è che purtroppo se gli spettacoli sono stati tutti molto buoni, il festival invece non si è visto. Non si è visto il clima da festival e neanche il “dopofestival” con degustazioni e intrattenimento mangereccio in piazza, ce l’ha fatta a invertire l’inerzia.

La paura del covid indubbiamente ha influito. Il distanziamento e la “sordina” messa agli spettacoli con una location suggestiva, ma oggettivamente fuori mano, pure. Ma a nostro avviso, quest’anno più che in passato, c’è stato anche un clima di indifferenza se non di ostilità latente verso il festival chiusino.

La politica ad esempio l’ha bellamente ignorato. Sia la maggioranza che l’opposizione non hanno proferito parola in proposito. Né di incoraggiamento o sostegno, né di critica.

Un festival estivo, anche se “ridotto” nel budget e negli allestimenti, è pur sempre l’evento clou di una stagione, tanto più che quest’anno è rimasto l’unico,  essendo saltati il Lars Rock Fest e altri eventi comer il Tria Turris e Slow Beer.  E come può chi comanda e chi si oppone o chi aspira magari a prendere le redini del comune prossimamente, far finta di niente e addirittura disertare a nastro tutti gli appuntamenti? Non è un buon segno per la politica chiusina a otto mesi dalle elezioni comunali del 2021.

Unica nota scritta affidata ai media, quella del sindaco Bettollini, presidente (finché sarà sindaco) della Fondazione. Per il resto silenzio di tomba da pare del Pd, dei 5 Stelle, dei Podemos, della destra e anche della varie associazioni cittadine. Come se il Festival Orizzonti non si fosse neanche tenuto.

Addirittura qualcuno, come Paolo Scattoni, uno dei leaders del Comitato Aria ed esponente del Pd (a questo punto, dopo l’abbandono del partito da parte del sindaco Bettolini,  neanche più ostinatamente minoranza, ma ormai parte integrante della corrente vincente) ha scritto sui social un commento di questo tenore: “apprezzo Gianni Poliziani, ma finché la Fondazione non renderà noti i dati sul bilancio non andrò a vedere i suoi spettacoli”. Ecco l’ostilità latente.

A parte il fatto che Paolo Scattoni non lo abbiamo mai visto agli spettacoli teatrali o musicali, neanche quelli in cui la Fondazione c’entrava poco o nulla (tipo quelli allestiti da primapagina o altri), ma cosa c’entra la giusta attenzione ai bilanci, con la partecipazione agli spettacoli?

La cultura e l’attività culturale di una città non si può ridurre ad una mera contabilità di costi e ricavi. Viene in mente il discorso sul Pil di Bob Kennedy. Non tutto si misura sulla base dei bilanci. Il festival Orizzonti negli anni ha prodotto una voragine di debiti. E va bene. E’ stato attuato un piano di rientro, ma è ovvio che la questione può essere materia di contestazione e di critica politica, ci mancherebbe. Ma un festival, che sia “sfarzoso” o “risicato”,  non produce solo spese o debiti, produce anche ricavi, quelli materiali dati dalle sponsorizzazioni e dai biglietti, dall’indotto (bar, ristoranti, fornitori, tecnici…) ma soprattutto quelli immateriali, che sono, come diceva Bob Kennedy,  la forza narrativa degli attori, la bellezza della poesia, la crescita culturale di chi partecipa da protagonista ad uno spettacolo e di chi vi assiste, la valorizzazione di esperienze locali, il coinvolgimento di generazioni diverse e di settori diversi (si pensi agli operatori che hanno partecipato al dopofestival).

Insomma, fare gli sdegnosi, solo per marcare una distanza dal sindaco o dalla Fondazione, e snobbare eventi di questo genere, ci sembra un modo vetusto e pretestuoso anche di fare politica. E un pessimo servizio alla comunità.

Una comunità che intorno al proprio festival dovrebbe ritrovarsi compatta e invece svicola, sgusciando via furtiva come una anguilla di Chiana, dimostra uno scarso attaccamento alla maglia e anche una scarsa attenzione alla propria argenteria. Il che la fa somigliare a certe famiglie della nobiltà decaduta, avviluppate su sé stesse, arroccate nei loro palazzi polverosi. Gente intristita e incattivita che odia l’aria fresca e i venti di novità e tiene le finestre sempre chiuse, tanto per star lì a guardarsi l’ombelico di luce ne basta poca.

m.l.

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