UN TEATRO IN VIAGGIO SULLA ROUTE 66: SUCCESSO DI “ON THE ROAD. AGAIN” A CITTA’ DELLA PIEVE

lunedì 14th, ottobre 2019 / 12:03
UN TEATRO IN VIAGGIO SULLA ROUTE 66: SUCCESSO DI “ON THE ROAD. AGAIN” A CITTA’ DELLA PIEVE
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CITTA’ DELLA PIEVE – E’ stata una gran bella serata quella di sabato 12 al Teatro Avvaloranti di Città della Pieve. Sala completa come nelle occasioni che contano, palchi riempiti fino al terzo ordine. Pochi posti vuoti. E pubblico attento e partecipe, dall’inizio alla fine del viaggio sulla Route 66 da El Paso e San Diego dove c’è il muro sul confine Usa-Messico alla “Rust Belt”, la fascia della ruggine, su nell’Ohio e nel New Jersey tra capannoni e acciaierie dismesse, odore di fuliggine e ragazzi della working class che faticano a sbarcare il lunario….

C’era tra il pubblico anche un certo numero di spettatori stranieri, inglesi e americani per la precisione, attratti forse dal titolo in inglese della rappresentazione “On the road. Again” o dal fatto che si parlasse di una storia americana… di roba loro insomma. E di tre miti assoluti del folk rock made in Usa. La “santissisma trinità” del folk rock mondiale. C’era insomma più gente che a Chiusi il 24 maggio e portare in due serate circa 300 persone in teatro è di sicuro motivo di soddisfazione. Anche perché non si tratta di “teatro di cassetta”. Di evasione. E con nomi famosi, noti anche al pubblico della Tv generalista.

On the road. Again è un lavoro amatoriale, del tutto artigianale, fatto da gente che è abituata al palcoscenico e da gente che lo è molto meno. E qui, come primapagina, quindi come “produzione”,  vorremmo ringraziare di cuore tutti coloro che sono saliti sul palco come lettori/attori, come musicisti, come dancers. E ringraziare anche la Pro Loco Associazione Turistica Pievese che ha collaborato all’organizzazione dell’evento, gli sponsor che hanno dato una mano e sostenuto l’iniziativa. Senza di loro non sarebbe stato possibile allestirla.

Quando una iniziativa ha successo, chi la fa, chi organizza è contento. E noi siamo molto contenti.

Non era facile né scontato. Perché i tre cantautori  presi come base per costruire il filo del racconto sono sì famosissimi, ma non in tutte le fasce di pubblico.

Woody Guthrie, il primo dei tre, il menestrello che saltava sui treni e per la prima volta al mondo fece entrare nelle canzoni i disperati, i diseredati i disoccupati in fila davanti agli uffici di collocamento cantava negli anni ’40. E’ stato di sicuro il capostipite e il modello di tutti i cantautori del mondo, ma è una figura un po’ lontana, sfumata. E’ morto più di 50 anni fa…  Bob Dylan è certamente più noto e presente, ha vinto il premio Nobel nel 2016, è stato la voce e la colonna sonora del ’68, ha scritto e cantato canzoni famosissime, ma anche lui è sempre stato una figura di nicchia, schiva,  scontante al limite dell’antipatia, non esattamente un cantante nazional popolare, quanto piuttosto un eretico arrogate e magnetico sempre in fuga anche dalla propria ombra…  E infine Bruce Springsteen, il ragazzo della working class nato e cresciuto in un posto in cui sapeva di fuliggine anche la musica e poi diventato “The boss”, il capo, il number one, senza mai smettere però si raccontare la sua America. L’America fatta della gente in fuga sulla Route, quella degli operai lasciati senza lavoro, dimenticati e resi invisibili dalla globalizzazione, quella dei ragazzi che passano il confine dal Messico e si ritrovano a cuocere metanfetamina. Bruce che ci ha raccontato il Nebraska e le strade di Filadelfia, Athlantic City e Youngstown…

Chitarre graffianti e robuste, voci roche e testi duri, spesso biascicati in uno slang da bassifondi più che da aule di Berkeley o della Boston University…

Il rischio insomma di parlare di cose incomprensibili al pubblico di oggi c’era, eccome. Non sappiamo se siamo riusciti pienamente nell’intento di raccontare quell’America, per raccontare e aprire uno squarcio di riflessione anche sul resto del mondo di oggi. Il monologo iniziale della poliziotta della Border Patrol Agents a questo serve, a contestualizzare il resto del racconto e a dirci quale è il quadro adesso…  In sostanza è lo stesso messaggio lanciato da una chitarra che sta facendo il giro del mondo, che passa di mano in mano e che sabato sera era sul palco del teatro pievese e ad un certo punto è stata imbracciata dal cantante dei Dudes Matteo Micheletti che l’ha suonata per il resto della serata. Crediamo non senza emozione perché la sera prima l’avevano i Modena City Ramblers e nei mesi scorsi l’hanno suonata Carlos Santana, Patty Smith, Jovanotti, Bobo Rondelli, Dario Brunori… Si tratta della “Mare di Mezzo”, una sorta di Fender Telecaster realizzata con il legno dei barconi naufragati a Lampedusa, dal liutaio di Cortona Giulio Carlo Vecchini, anche lui presente a Città della Pieve (grazie Giulio!).

Una chitarra che, come quella in cui Woody  aveva appiccicato un foglietto con scritto “This machine kills fascists”ci dice che le chitarre raccontano sempre un sacco di cose. E che certe storie, come quelle delle migrazioni epocali, non finiscono mai. Si ripetono.

Lo spettacolo di sabato scorso è stato una sorta di anteprima della stagione del Teatro Avvaloranti che comincerà tra un mesetto, e sarà aperta, guarda caso, con il Pinocchio di Gabriele Valentini della compagnia Arrischianti di Sarteano, che vede in scena tra gli altri anche Martina Belvisi, interprete femminile di On the road. Again. Ottima interprete. Ma noi lo sapevamo, Martina è una delle punte di diamante del teatro di questo territorio, così come conoscevamo la verve istrionica e geniale di Alessandro Manzini e la presenza scenica rigorosa di Luca Morelli e Massimo Giulio Benicchi, che fanno tutt’altro nella vita di tutti i giorni ma se la cavano benissimo anche sul proscenio.

Certo un teatro bomboniera, come è quello di Città della Pieve, non è luogo concepito e strutturato per concerti rock. Ma sabato, i Dudes, pur suonando con il freno a mano tirato rispetto al loro standard, hanno reso bene l’atmosfera della Route 66 e dell’altra America che siamo andati a scoprire. Hanno tirato fuori un bel sound, caldo, avvolgente, ben mixato con la narrazione cui ha fatto spesso da contrappunto e da “tappeto”…  Cimentarsi con mostri sacri, non è mai facile, anzi spesso è rischioso. Per una band che di solito non fa cover, ma propone solo musica di produzione propria, lo è ancora di più. Ma l’operazione è riuscita e crediamo che anche per i Dudes sia stata una bella esperienza, un bel viaggio. Per di più davanti ad un pubblico non solo numeroso, silenzioso e attento, ma anche inusuale rispetto alle loro serate. I dancers della scuola In punta di piedi, hanno dato 5 pennellate di colore, di leggerezza e di movimento. Senza, lo spettacolo sarebbe risultato più statico e più cupo. Grazie quindi anche a Sonia Franceschini & Friends. Ballare Bob Dylan può anche apparire un azzardo. Loro lo hanno fatto senza paura.

Alla fine, ci è sembrato che la gente uscisse soddisfatta. Per chi fa teatro (che si tratti di professionisti o dilettanti) questo è ciò che conta.

 

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