UN “CAMMINO” DI ESPIAZIONE IN DIRETTA TV PER 6 RAGAZZI CARCERATI. TRA LORO ANCHE MATTEO SANTORO, ACCUSATO DI UN OMICIDIO A CHIUSI

venerdì 06th, settembre 2019 / 13:13
UN “CAMMINO” DI ESPIAZIONE IN DIRETTA TV PER 6 RAGAZZI CARCERATI. TRA LORO ANCHE MATTEO SANTORO, ACCUSATO DI UN OMICIDIO A CHIUSI
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CHIUSI. Su Rai 3 sta andando in onda dal 2 fino al 13 settembre la docu-fiction “Boez, andiamo via”. E’ il racconto in presa diretta di un viaggio. Anzi di un “cammino”, a piedi, per 900 km, da Roma a Santa Maria di Leuca, in fondo alla Puglia. Lungo quella che era la Via Francigena del Sud che nel medioevo portava i pellegrini verso Gerusalemme e da Gerusalemme a Roma.

Ma non è un pellegrinaggio religioso. Un “cammino” come quello che si fa per arrivare a Santiago de Compostela. Nemmeno un viaggio turistico naif, per amanti della natura e del trekking. Si tratta di un programma di espiazione esterna della pena. Sì perché i giovani protagonisti, accompagnati e guidati dalla guida escursionistica Marco Saverio Loperfido e dall’educatrice di comunità Ilaria D’Apollonio, sono ragazzi che stanno scontando una pena carceraria o presso delle comunità. Sono 6, si chiamano Alessandro, Francesco, Omar, Maria, Kekko e Matteo. Sono ragazzi difficili, con storie complicate alle spalle. Famiglie disgregate, in alcuni casi legate alLa criminalità organizzata, ragazzi che hanno subito, ma anche esercitato la violenza. Ragazzi di strada come cantavano i Corvi negli anni ’60…

Matteo, di cognome si chiama Santoro. E’ in carcere ad Orvieto, per “concorso in omicidio”. E’ uno dei due fratelli arrestati e condannati per l’uccisione di un pensionato (Luigi Ramini) nell’estate del 2013 a Chiusi. “Da allora non ho visto altro che muro e sbarre, muro e sbarre” dice Matteo in un momento della trasmissione. E racconta anche di avere un padre, ma è come se non l’avesse e di aver perso invece la madre. Di non avere più nessuno di fatto…  E di aver frequentato persone che era meglio non frequentare…” . E’ un ragazzo pieno di tatuaggi, che fa fatica a parlare, un po’ perché la voce gli si strozza in gola, un po’ perché ha un vocabolario ridotto e poca dimestichezza coi discorsi… Però questa occasione che gli è stata offerta l’ha presa al volo, per respirare aria, per vedere il mondo fuori dalle sbarre. Fa fatica anche a camminare su quei ciottoli, sui viottoli di montagna.  Lo zaino gli pesa sulle spalle, e lo dice,  ma gli pesa meno della sua condizione di ragazzo che ha conosciuto solo un tipo di vita, e di quelle sbarre. Fa comunella con un altro del gruppo, il più simile e lui, Omar, che fa lo sborone, attraversa un passaggio a livello chiuso perché lui non è abituato ad aspettare, va a comprarsi e si fa una canna, proprio con Matteo, mettendo a rischio il prosieguo del cammino;  ad un certo punto “sclera” come dice lui e vuole abbandonare il gruppo e il progetto… ma alla fine è solo un ragazzo che è rimasto solo ed è poco abituato alla compagnia e mostra una sensibilità non comune quando raccoglie due cani per strada e se li porta appresso…

Anche il figlio del mafioso che teneva in casa un leone, apparentemente il più grande del gruppo, ogni tanto alza la voce, come fanno i leader, per ristabilire le regole e l’unità della truppa…

Di quei due fratelli che abitavano a Chiusi e ora sono in galera per l’omicidio di quel povero pensionato che li aiutava, che dava loro degli spiccioli (forse anche qualcosa di più) da quando erano ragazzini, si erano perse le tracce. Nessuno a Chiusi si è stracciato i capelli per loro. Un po’ come Rudy Guede nel processo per il caso Meredith a Perugia, anche i due fratelli Santoro, ragazzi difficili, border line, già finiti nelle maglie della giustizia per furtarelli e atti vandalici, sembrarono i colpevoli perfetti.

Adesso questa docu-fiction riaccende in qualche modo i riflettori su di loro e ci dice che anche i ragazzi di strada hanno un’anima. Ci dice che si può provare a uscire dal cono d’ombra in cui la vita ti può cacciare, soprattutto se vivi in ambienti fatti di marginalità, di sottocultura, dove la sopraffazione è una regola e anche, a volte, un modo per stare a galla, per sopravvivere e non soccombere. La docu fiction Boez -Andiamo via, ci dice anche che ci sono giovani straordinari che si mettono al servizio degli altri e che accettano sfide apparentemente molto complicate, come hanno fatto in questo caso Ilaria e Marco, le due “guide”. Due “angeli del fango” versione 4.0, dove il fango è quello delle vite sbagliate di una gioventù alla deriva, con  più anni di carcere da scontare di quelli che ha vissuto. Tutt’altro che facile rapportarsi e condividere 900 km a piedi, ma anche la tenda, la camera in un ostello o in una scuola, i pasti, la doccia con ragazzi così… Pensateci un attimo.

Molto istruttivi, per capire certe dinamiche, i dialoghi tra loro e i ragazzi scelti per questo viaggio…  Ed è interessante anche l’approccio tecnico della docu-fiction con le riprese delle telecamere (come in un reality) integrate da quelle fatte dagli stessi ragazzi protagonisti con il telefonino. Una “presa diretta” senza filtri, che rende il tutto molto reale e molto toccante. La Tv pubblica a volte regala delle perle.

M.L.

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