IO C’ERO A DONGO: I SALUTI ROMANI DEI FASCISTI E IL RISCHIO REDUCISMO DELLA SINISTRA…

martedì 29th, aprile 2025 / 17:05
IO C’ERO A DONGO: I SALUTI ROMANI DEI FASCISTI E IL RISCHIO REDUCISMO DELLA SINISTRA…
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Tutti i giornali e molti siti web hanno scritto ieri di quanto successo a Dongo sul lago di Como, domenica 27 aprile. Ovvero di quella macabra commemorazione di Benito Mussolini e dei suoi gerarchi che il 28 aprile del 1945 furono fucilati dai partigiani proprio lì, sul pontile di Dongo, su ordine del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia che li aveva condannati a morte come criminali di guerra.

Ogni anno, da anni la sceneggiata dei nostalgici del duce e del fascismo si ripete. Io c’ero, domenica scorsa a Dongo, insieme all’amico Alessandro Lanzani, alcuni amici comuni dell’Anpi Barona di Milano e qualche centinaio di antifascisti arrivati da tutta la Lombardia (e non solo) per presidiare la piazza. Non solo combattenti e reduci degli anni d’oro della sinistra, ma anche esponenti di varie forze politiche e sindacali e molti giovani e giovanissimi. 

Tra il manipolo di fascisti in camicia nera che facevano il saluto romano e il rito del “presente” davanti al pontile che è sempre lo stesso del ’45 e conserva ancora i fori dei proiettili di quella fucilazione e gli antifascisti in piazza, un cordone di mezzi e agenti della Polizia di Stato a fare da muro, per non fare entrare in contatto le due opposte fazioni. Stessa scena sulla strada che porta a Giulino di Mezzegra, a pochi chilometri di distanza, dove furono giustiziati Mussolini e la sua amante Claretta Petacci e dove i nostalgici hanno ripetuto il rito commemorativo.

Si può fare? non si può fare? E’ normale che nella Repubblica Italiana nata dalla Resistenza si celebrino Mussolini e i gerarchi della Repubblica di Salò che stavano dall’altra parte della barricata? Non è normale. Non è normale che il sindaco di Dongo (di centro destra) si faccia fotografare a fianco dei neofascisti, e non a fianco di chi portava le bandiere e i medaglieri dell’Anpi, con il numero dei morti (2.855 solo a Milano).

Non ha giurato sulla Costituzione? E’ vero che non aveva addosso la fascia tricolore, quindi non era lì in veste ufficiale, ma c’era e questo lo poteva evitare.

Il presidente del Senato, seconda carica dello Stato, ha detto che “a Dongo c’erano 100 persone che ricordavano dei morti. Facevano bene, facevano male, è il loro modo di esprimere questo sentimento, ma grazie a Dio non c’era odio e non c’era violenza. A me basterebbe che non ci fosse in nessuno né odio né violenza e del resto possiamo discutere”. 

E’ vero non c’è stata violenza. Ma celebrare dei criminali di guerra che hanno avuto parte attiva nelle deportazioni, negli arresti, nei rastrellamenti e nelle fucilazioni dei resistenti, celebrare dei gerarchi che sono rimasti fino alla fine a fianco dei nazisti e che stavano cercando di fuggire, mimetizzati tra i tedeschi in ritirata, non è e non può essere considerato solo un rito di pietà, o peggio ancora una manifestazione folcloristica… Lo ha detto a Dongo il segretario regionale dell’Anpi Primo Minnelli ed ha ragione, perché i 15 gerarchi fucilati a Dongo non erano dei semplici repubblichini, erano esponenti di primissimo piano del fascismo e della RSI. Questi i loro nomi:

Alessandro Pavolini, Ministro segretario del PFR;
Francesco Maria Barracu, colonnello, sottosegretario alla presidenza del Consiglio
Ferdinando Mezzasoma, Ministro della Cultura Popolare

Augusto Liverani, Ministro delle Comunicazioni
Ruggero Romano, Ministro dei Lavori Pubblici
Paolo Zerbino, Ministro dell’Interno
Luigi Gatti, ex prefetto di Milano, segretario di Mussolini
Paolo Porta, federale di Como
Idreno Utimpergher, comandante della Brigata nera di Empoli
Nicola Bombacci, uno dei fondatori del Partito Comunista d’Italia (1921), poi aderente al Fascismo e alla Rsi
Pietro Calistri, capitano pilota dell’Aeronautica Nazionale Repubblicana
Goffredo Coppola, rettore dell’Università di Bologna
Ernesto Daquanno, giornalista, direttore dell’Agenzia Stefani
Mario Nudi, impiegato della Confederazione fascista dell’Agricoltura
Vito Casalinuovo, colonnello della GNR, ufficiale d’ordinanza di Mussolini.

Muore nell’occasione anche Marcello Petacci, fratello di Claretta, che tenta la fuga prima tra le case, poi gettandosi nel lago dove però verrà colpito e ucciso. A decidere l’esecuzione di Mussolini e dei gerarchi fu, come già detto, la dirigenza del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia e in particolare il Comitato Insurrezionale di Milano composto da Sandro Pertini, futuro presidente della Repubblica, Leo Valiani, Luigi Longo ed Emilio Sereni che vollero evitare che il Duce fosse consegnato agli Inglesi…  Ad eseguire la sentenza e a sparare a Mussolini, secondo la versione più accreditata, furono i partigiani Walter Audisio, Aldo Lampredi e Michele Moretti.

Tutti i corpi dei condannati vennero immediatamente trasferiti a Milano con un camion che, lungo il tragitto, raccolse a Giulino di Mezzegra le spoglie di Benito Mussolini e di Claretta Petacci.
Verranno portati tutti in Piazzale Loreto, luogo simbolico dove il 10 agosto 1944, quindici partigiani e antifascisti
prelevati dal carcere di S. Vittore, erano stati fucilati dai militi della Legione “Muti” e abbandonati sul selciato a monito
dei milanesi. Mussolini, la Petacci e i gerarchi, come è noto, furono appesi per i piedi alla pensilina di un distributore di benzina. Ciò avvenne non solo perché il popolo li vedesse, ma anche per evitare ulteriore scempio dei cadaveri da parte della folla.

Certo non fu un bello spettacolo. Ma è così che il più delle volte, da sempre, finiscono i dittatori e i loro tirapiedi. Chi va a Dongo o a Predappio a celebrare Mussolini e i gerarchi di Salò come fossero delle vittime o degli eroi romantici di fatto celebra la storia all’incontrario. Celebra i carnefici, non le vittime. Questo deve essere chiaro. Chi celebra Mussolini e i gerarchi sottintende che i carnefici furono Pertini, Valiani, Longo, Sereni… e il colonnello “Valerio” e i partigiani che eseguirono la sentenza del CLNAI i quali sono invece, a pieno titolo e giustamente, da annoverare tra i padri costituenti e artefici del riscatto dell’Italia dal baratro in cui i fascismo l’aveva precipitata.

L’Italia, forse anche per la fucilazione sul posto del Duce e dei suoi fedelissimi a Dongo, non ha mai avuto una sua Norimberga. Ma in quel momento non era possibile agire diversamente: l’uccisione del capo e di coloro che avevano portato il paese in guerra e dopo l’8 settembre avevano continuato a combattere a fianco dei nazisti occupanti come atto finale e definitivo e come timbro sulla disfatta del fascismo.  E non a caso Pertini è stato il Presidente più amato dagli italiani. Checchè ne pensino i fascisti e i nostalgici del duce.

Ovvio che se i fascisti che fanno il saluto romano e la chiamata del “presente” ai fucilati di Dongo appaiono come irriducibili nostalgici della dittatura del ventennio, c’è il rischio che anche gli antifascisti che vanno lì a fischiare e a cantare Bella Ciao vengano percepiti come un fenomeno di reducismo minoritario e ormai obsoleto, come l’altra faccia della stessa identica medaglia scolorita…

Domenica 27 a Dongo eravamo 100 fascisti contro 350, forse 400 antifascsti. Ma sempre troppo pochi. Il prossimo anno sarebbe bello (e opportuno) essere 100 contro 5 mila…  I fascisti in Italia ci sono, ci sono sempre stati, c’erano e facevano le stesse sceneggiate anche prima del governo Meloni, ma l’unica strada per farli stare ad orecchie basse è quella di sovrastarli, di farli sentire circondati e isolati non da un manipolo di militanti leggermente più numeroso di loro, ma dall’Italia intera. Dalla coscienza civile e democratica degli italiani.

Certa roba, come la celebrazione di Dongo, in questo Paese non può avere diritto di cittadinanza. O comunque va messa all’angolo. Che poi le forze dell’ordine vadano a identificare la fornaia di Ascoli per uno striscione antifascista e non i fascisti che celebrano Pavolini, Mezzasoma, Zerbino e gli altri a Dongo, è un altro discorso che merita una riflessione ulteriore. C’è sempre chi è più realista del re.

Io alla manifestazione del 25 aprile a Milano e domenica 27 a Dongo, però, ho visto poliziotti con il casco e il manganello comportarsi in maniera intelligente, civile e democratica, anche se qualcuno avrebbe forse preferito che agissero diversamente. Pasolini nel ’68 non aveva tutti i torti.

m.l.

 

 

 

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