L’ANOMALIA POLITICA DEL “MODELLO RIACE”. ECCO PERCHE’ IL SINDACO LUCANO E’ FINITO SOTTO ATTACCO

mercoledì 03rd, ottobre 2018 / 12:38
L’ANOMALIA POLITICA DEL “MODELLO RIACE”. ECCO PERCHE’ IL SINDACO LUCANO E’ FINITO SOTTO ATTACCO
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In seguito all’arresto (domiciliari) del sindaco di Riace per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e al di là delle numerosissime testimonianze di solidarietà a Mimmo Lucano, c’è anche chi si chiede il perché di questo attacco non tanto alla persona, ma al “modello Riace”. Perché quello che il sindaco Lucano ha messo in piedi era (è) un “modello” di accoglienza e di gestione dei migranti, in una terra peraltro abituata e segnata fortemente dalla “necessità di emigrare”.

Su una testata on line che si chiama infoaut.org abbiamo rintracciato un articolo del 17 ottobre 2017, pubblicato al momento in cui a Lucano venne recapitato l’avviso di garanzia.

Infoaut.org spiega il motivo dell’azione giudiziaria e ricorda anche qualche antefatto, partendo da un precedente servizio (gennaio 2017) in cui il “modello Riace” veniva così riassunto:  “Riace è un piccolo paesino della Locride con la classica disposizione divisa tra marina e paese antico, arroccato sulla montagna al riparo da scorribande e invasioni. Il nome è antico, greco, e se non fosse per le due statue ripescate nei suoi mari se ne sarebbe sentito parlare molto poco. Almeno fino a una decina di anni fa, quando il suo sindaco supportato dalla popolazione locale decide di ripopolare il paese sulla strada dell’abbandono offrendo ospitalità ai migranti. La vicenda di questa località calabrese fa il giro del mondo in poco tempo, diventa un cortometraggio di Wim Wenders, viene apprezzata da Papa Francesco e il suo sindaco addirittura viene nominato tra gli uomini più influenti del mondo dalla rivista Fortune. La trovata è quella di ricercare un’alleanza tra la popolazione locale e i migranti, basata su un rilancio culturale e economico del paese, “approfittando” delle risorse offerte dal sistema dell’accoglienza e dall’autorganizzazione dal basso delle molte persone impiegate nel progetto. Riace ospita oggi 500 migranti su 1.500 abitanti di cui 165 di questi sono all’interno del progetto Sprar in cui lavorano 80 operatori”.

Un modello insomma di gestione del flusso migratorio dal basso, con ricadute positive per la comunità. Ma se il mondo guarda a Riace come al paesino (e al sindaco) che ha trovato l’uovo di Colombo, ad alcuni il “modello Riace” non piace, perché è “anomalo”, è fuori dagli schemi. E’ in sostanza una rivoluzione. E le rivoluzioni, si sa, devono sempre fare i conti con i controrivoluzionari. E con la resistenza del potere costituito…

Secondo la rivista infoaut.org l’attacco al modello Riace parte da lontano ed è l’epilogo di “una lunga guerra condotta contro un modello di accoglienza che ancora non si è piegato alle logiche della governance. È una storia nata “storta” quella di Riace, non inquadrabile nella retorica caritatevole/assistenziale da pio cattolicesimo”. Ecco il nodo.

“Questa storia – si legge su Infoaut – ha inizio nel 1998, quando i primi migranti iniziano a sbarcare sulle spiagge di Riace; erano un gruppo di rifugiati kurdi, molti dei quali militanti del PKK, ed è a partire da queste origini che l’esperienza porta con sé una carica di rottura conflittuale difficile da inquadrare in un’ottica di compatibilità sistemica.
A Riace si è iniziato ad “accogliere” in tempi in cui i migrati non «rendevano più del traffico di cocaina» e lo si è sempre fatto con lo spirito della solidarietà internazionale, conflittuale più che assistenziale. Le prime case, allora abbandonate, furono messe a disposizione gratuitamente da calabresi che, per conoscenza diretta, sapevano bene cosa significasse emigrare. Se a questo si aggiunge che a coordinare questa forma spontanea di mutuo aiuto c’era un gruppo di vecchi comunisti locali, e non qualche prete dalla faccia pulita facilmente spendibile per le riviste patinate, si può capire quanto il modello sia stato atipico fin dalla sua nascita. Un progetto nato con modalità atipiche così come è atipico “Mimmo o kurdo”, un sindaco che riesce ad affermare a chiare lettere che “la giustizia sociale è più importante della legalità”. Un’affermazione, che in una terra intossicata dal legalitarismo anti-ndrangheta, risuona come una dichiarazione di guerra tanto alla burocrazia ministeriale che gestiste i progetti di accoglienza, quanto a tutti quei soggetti che sulla retorica legalitaria e sulla gestione dei progetti hanno costruito le loro fortune”.

La rivista Infoaut.org fa parte di quell’arcipelago di testate che un tempo sarebbero state definite di “controinformazione”, poi dell’area antagonista. Ma è una testata che fa informazione molto seriamente, come faceva a suo modo Peppino Impastato, con la sua Radio Aut,  non a caso quell’Aut nel titolo è più che un semplice richiamo.

Ma torniamo alla vicenda di Riace: “Per focalizzare meglio quello che sta avvenendo a Riace – scriveva Infoaut  un anno fa – è necessario però inquadrare il fenomeno dei progetti di gestione dei flussi migratori all’interno del territorio calabrese. La Calabria, in proporzione al numero di abitanti, è la regione italiana che ospita il più alto numero di migranti nelle varie strutture di accoglienza ministeriale (SPRAR, CAS, CPA, ecc.). Questo primato è stato possibile per un semplice motivo: l’enorme circuito economico prodotto dal buisness dell’accoglienza. In una regione in cui la disoccupazione giovanile è al 60% e l’emigrazione nazionale ed estera ha raggiunto nuovamente percentuali da anni ’50, anche un minuscolo progetto di ospitalità all’interno di un piccolo pesino rappresenta una boccata di ossigeno vitale. È in questa realtà che enormi progetti di sfruttamento del flusso migratorio, come il CARA di Isola Capo Rizzuto (gestito secondo una recente inchiesta della DDA  direttamente dalla ‘ndrina locale) o i vari CAS, nati come funghi riciclando strutture alberghiere ormai al collasso, si mescolano ai più piccoli progetti SPRAR allocati spesso in paesini rurali prossimi allo spopolamento. Un vero proprio sistema di welfare dell’accoglienza o per meglio dire: un welfare 2.0 dell’inclusione differenziale.  Sistema in cui a ingrassare sono in pochi e a farci le spese in molti: in primo luogo i migranti che sono costretti, per non perdere la possibilità di avere il permesso di soggiorno, o a vivere in pessime condizioni igienico-sanitarie (quando ospitati nei CAS/CARA) o a essere rinchiusi nella comoda narrazione assistenziale caritatevole (se ospiti di SPRAR). Ma i migranti non sono i soli a pagarne le spese, infatti, dietro al collaudato meccanismo delle finte cooperative anche gli operatori e le operatrici che lavorano all’interno dei progetti sono costretti a farlo nella più totale assenza di garanzie. Persone a cui è richiesta una elevata competenza linguistico/relazionale con anni di formazione alle spalle nei settori più disparati (scienze politiche o sociali, cooperazione internazionale, mediazione culturale, psicologia) sono costrette a lavorare, con il ricatto della disoccupazione, con contratti a progetto senza ferie o malattie per pochi euro al mese. Un doppio ricatto in cui a perdere sono tanto i migranti quanto gli operatori e le operatrici, e gli unici a vincere sono i CDA delle cooperative nelle cui tasche rimane il grosso dei famosi 35€ giornalieri spesi per l’accoglienza. Ricatto che produce, come effetto immediato e per nulla secondario, anche l’incapacità di (ri)conoscersi tra operatori e migranti come appartenenti al medesimo segmento di precariato sociale. Se, da un lato, lo Stato ci guadagna in termini di tenuta sistemica per questa mancanza di riconoscimento che potrebbe essere altrimenti conflittuale, dall’altro evita lo spopolamento dei centri rurali calabresi drenandovi le uniche risorse concesse della UE. Infatti, la facilità con la quale nascono le strutture di accoglienza è dovuta anche al fatto che l’UE non conteggia le risorse che l’Italia spende per la gestione della migrazione nel rapporto deficit/pil, permettendogli di “investire” in questo settore tutto il denaro che vuole.           
Un meccanismo complesso, fatto di ingranaggi precisi un cui ogni singolo pezzo deve fare il proprio lavoro, altrimenti c’è il rischio serio che inceppandosi produca un’esplosione conflittuale. Gli SPRAR non devono più fare una azione politica denunciando cosa sia il sistema d’accoglienza, altrimenti chi ci lavora dentro rischia di perdere anche quel minimo reddito che gli permette la sussistenza. Mentre i migranti devono stare zitti e buoni pena l’espulsione dallo stesso sistema d’accoglienza, perdendo anche la possibilità di avere i documenti. Ognuno deve recitare il suo ruolo senza mescolarsi con l’altro o salta tutto!   In questo quadro – continua l’articolo di Infoaut.org – è intollerabile che esista una esperienza come quella di Riace, troppo scomoda, troppo conflittuale, troppo ostinatamente “politica”. Qui anche il meccanismo delle cooperative sembra non funzionare come dovrebbe: troppi diritti concessi agli operatori e troppa mescolanza tra operatori, migranti e abitanti; sembrerebbe addirittura che qualche migrante lavori per i progetti. Non è tollerabile tutta questa contaminazione. Riace agli occhi del ministero degli interni non è altro che un ingranaggio impazzito che va rimosso il prima possibile dal sistema.  Anche lo stesso Lucano non si presta bene alla narrazione di comodo che la sinistra fa dell’accoglienza, un sindaco che cita Öcalan invece di un prete che cita papa Francesco non è molto presentabile, un esponente delle istituzioni che distrugge la retorica della legalità parlando di giustizia sociale non fa fare bella figura a nessuno, un calabrese che parla contro la ‘ndrangheta con un forte accento meridionale non ha la stessa funzione tranquillizzante/colonizzante di un prete che dice magari le stesse cose, ma con un rotondo accento nordico. Per questo motivo la procura di Locri non ha trovato niente di meglio da fare (sic!) che inviare i finanzieri a Riace per verificare che tutto fosse in ordine e che la legalità fosse rispettata”.

Ecco una lettura dei fatti (e antefatti) che non sembra campata in aria. “Non è facile capire – conclude Infoaut.org – quanto a lungo questo modello sarà in grado di resistere, ma già oggi (ottobre 2017, ndr) una cosa sembra chiara: Riace e il suo sindaco sono riusciti a scavare dei solchi profondi tra chi vede i migranti come un business più o meno etico, e chi invece riconosce in loro una possibilità di rottura di un ricatto sistemico”. 

Ecco, un anno dopo sono scattate le manette, ma le ipotesi di reato, sono già state ridimensionate. Vedremo, adesso, se resisteranno fino in fondo o saranno smontate. La stessa Procura ha parlato di indagini svolte con “estrema superficialità”, affermando che “il diffuso malcostume emerso nel corso delle indagini NON SI È TRADOTTO IN ALCUNA DELLE AZIONI DELITTUOSE IPOTIZZATE”.  Il che sembrerebbe avvalorare la tesi dell’attacco politico, anche se non è escluso che il sindaco di Riace, i suoi uffici comunali, alcuni operatori abbiano agito talvolta forzando le regole, ma lo hanno fatto non per lucro o per malversazione, solo per facilitare delle soluzioni al problema. In sostanza per umanità. O eccesso di umanità. Al massimo per una convinta filosofia solidaristica e internazionalista, che è difficile però inquadrare come reato… Noi stiamo con Lucano. E con il suo “modello Riace”. Del resto abbiamo conosciuto, anche dalle nostre parti, sindaci e amministratori che negli anni ’50 e ’60 forzavano le normative per dare una mano a persone in difficoltà, lavoratori licenziati, mezzadri sfrattati. Anche loro finirono talvolta in tribunale, ma quelle denunce erano considerate medaglie al valore.

Marco Lorenzoni

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