CHIACCHIERE DA BAR SUL PALLONE E DINTORNI… TRA NOSTALGIA, FAVOLE E BUSINESS

mercoledì 15th, luglio 2015 / 17:56
CHIACCHIERE DA BAR SUL PALLONE E DINTORNI… TRA NOSTALGIA, FAVOLE E BUSINESS
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Con questo caldo riesce difficile parlare di politica, della questione-Grecia, di Renzi che continua a fare silenziosamente il lavoro sporco per conto dei poteri forti, di una sinistra che vorrebbe tornare a dire la sua ma non trova la strada… E allora, tra una birra, una coca ed un caffè ecco che la discussione finisce inevitabilmente e inesorabilmente  sul pallone. E su ciò che ruota intorno al pallone. Alla Notte Rosa Shopping di Chiusi Scalo il bar del bersagliere ha addirittura “istituzionalizzato” la chiacchiera da bar sul pallone e dintorni con un dibattito a tre voci  “Sai chi erano Edson Arantes, Diego e Lionel?”, tanto per dire…

E allora partiamo da lì… certo che lo so chi erano Edson Arantes, Diego (Armando) e Lionel la Pulce… Ma chi è stato il migliore dei tre?

Qui il discorso si fa più complicato, anche al bar. Perché il calcio negli anni è cambiato e quello di Edson Arantes non era uguale a quello di Diego e quello di Diego era un’altra cosa rispetto a quello di Messi… O no? Sì. E allora? E allora io dico che sì Pelè (cioè Edson Arantes do Nascimiento)è stato grandissimo. Good, come dicono gli inglesi. Maradona però… better (cioè meglio). George invece.. Best. Il migliore.

Non so se George Best sia stato migliore di Pelè e di Maradona. So solo che è stato lui, quell’irlandese con i capelli lunghi, le basette, i calzettoni abbassati a farmi innamorare del pallone. Sono stati i suoi dribbling e la sua “irriverenza” applicata al mondo del calcio a farmi pensare che il calcio non fosse solo un gioco.  Una risata vi seppellirà. La fantasia al potere. Erano due slogan del fatidico ’68. Della rivolta giovanile. E io so che solo George Best poteva vincere il pallone d’oro nell’anno 1968. E infatti lo vinse, perché Best era la fantasia al potere, calcisticamente parlando. Dopo di lui lo vinse Rivera che non era l’ultimo arrivato e degli italiani è stato probabilmente il più bravo di tutti. Per intelligenza, fantasia. E non solo. Tant’è che credo sia stato l’unico ex calciatore a diventare sottosegretario… alla Difesa. Non allo sport.

Lo hanno scritto in tanti che il calcio non  è solo un gioco. E se una frase  come questa: “Tutto quello che so della vita l’ho imparato dal calcio”, l’ha detta un premio Nobel per a letteratura, per di più comunista, deve essere vero. E tanti scrittori, alcuni sublimi (come Osvaldo Soriano o Manuel Vasquez Montalbàn, ma anche Pasolini, Umberto Saba, Baricco…) ci hanno raccontato un pallone che è sì geometria e fisica, ma anche poesia, filosofia, nostalgia struggente.

Ed ecco che nella classica discussione da bar sport esce fuori un’altra domanda:

a chi l’Oscar del pallone poetico?

Barrare una delle seguenti caselle:

  1. a) al dottor Socrates per quell’esperienza incredibile della “Democrazia Corinthiana”, quando la libertà è un colpo di tacco, per dirla con Riccardo Lorenzetti.
  2. B) all’Olanda del calcio totale, prima rivoluzione arancione della storia.
  3. C) a Kempes che non stringe la mano ai generali argentini dopo la vittoria Mundial del ’78.
  4. D) a Carrascosa che a quei Mondiali non andò proprio per non dover stringere la mano ai generali…
  5. E) A Garrincha che era zoppo ma imprendibile e morì povero e solo..
  6. F) a quell’uruguagio di nome Varela che fece piangere tutto il Brasile nel ’50…

Difficile scegliere. Fate voi. Ma da queste 6 risposte non si scappa…

E siccome una domanda tira l’altra, ecco a ruota la seconda: e a chi l’Oscar della sfiga?

Qui, personalmente non ho alcun dubbio, né temo smentite: lasciando da parte il Grande Torino (quella fu una tragedia immane non un colpo di sfiga), dico alla Fiorentina, che nell’82 perse uno scudetto per un rigoretto dubbio dato alla Juve e un altro lo perse perché Batistuta si infortunò ed Edmundo decise che aveva voglia di andare al carnevale di Rio… Perché se prendi Rossi e Gomez e ti si rompono tutti due…Vuol dire che devi solo andare a Lourdes, sperando di non trovare chiuso.  E il giocatore più sfigato? Nessun dubbio neanche su questo: Giancarlo Antognoni, due infortuni gravissimi in sequenza e una finale del Mondiale saltata per un pestone rimediato contro la Polonia… E una carriera comunque sontuosa, ma in una squadra che era tutto sommato una squadretta e lo ha visto giocare con Sella e Desolati, Casarsa e Speggiorin. Povero “Antonio”…

Può capitare che il discorso, sempre nella diatriba da bar, scivoli sul piano più strettamente tecnico e  si cominci ad accapigliarsi sulla maggiore efficacia del 3-5-2 rispetto al 4-3-3- o a un 4-3-2-1, allora io non mi faccio trascinare nella disputa, ricordando  quello che era il “credo” calcistico e il modulo adottato da un grande allenatore degli anni ’60-70: “una squadra deve avere un portiere che para, un assassino in difesa, un genio a centrocampo, un mona che segna e sette asini che corrono”. Ecco l’allenatore in questione era Nereo Rocco, el paròn del Milan e del Padova. Poi anche della Fiorentina.

E il modulo è lo steso che applicavamo noi, da ragazzi, al campetto, con le porte fatte con due sassi o le cartelle di scuola.

Certo, quello era un altro calcio. Forse più “poetico” e umano, ma anche molto più lento, meno aggressivo, meno fisico. A quei tempi, da ragazzi, noi sognavamo tutti di essere Rivera o Mazzola, o magari De Sisti, che non aveva il genio di Rivera, né la velocità e il dribbling di Mazzola, ma in nazionale lui giocava e gli altri due dovevano fare la staffetta.

Oggi il calcio è soprattutto televisione. E soldi. Il calcio lo fanno più i procuratori e i diritti tv che i giocatori. Ed è finito il tempo dei giocatori “bandiera”. Ora si va dove ti porta il… conto in banca. E i contratti valgono come il due a briscola. C’è sicuramente meno poesia, oggi. Ma il calcio, come lo sport in genere è anche un grande business, una immensa fabbrica che dà lavoro a migliaia e migliaia di persone. Questo va considerato. E la nostalgia per il pallone in bianco e nero, per i numeri dall’1 all’11, per le maglie senza sponsor, per i dribbling sfrontati e irriverenti di Sivori, di Julinho, di George Best, per i lanci di Rivera o Antognoni, per quella macchina perfetta, ma imprevedibile che era l’Olanda di Crujiff e Neeskens, sarà pure un accenno di malattia senile… ma è la stessa malattia, la stessa nostalgia, lo stesso magone che ti prende se vedi una tappa del Tour de France con Nibali e Froom, Contador o Purito Rodriguez… che sono forti, certamente, ma non sono Coppi e Bartali, e nemmeno Anquetil e Bobet, Merckx e Gimondi, Hinault, Indurain o Pantani… Anche il ciclismo è cambiato rispetto ai tempi di Coppi e poi di Gimondi o di Pantani…

Anche oggi l’Isoard è l’Isoard, il Mortirolo è il Mortirolo e anche oggi decine di migliaia di persone si accalcano sulle grandi salite come fossero il Maracanà… Eppure non è la stessa cosa. Non solo per l’ombra e i danni del doping. Non è la stessa cosa perché anche il ciclismo è più tecnologico, meno “umano”… Atleti costruiti in laboratorio… e secondo le lune del calendario… Merckx le correva tutte, oggi c’è gente che se fa il Giro non fa il Tour, se fa il Tour non fa la Vuelta…

E gli altri sport non sono da meno. Tutto è business e battage mediatico. Anche il nuoto, la scherma, quando c’è qualche evento mondiale… Poi ci sono le favole… come il Carpi e il Frosinone che volano in serie A nel calcio o la Emma Villas Chiusi che vince tre campionati di fila e sbarca in A2.

Le favole sono favole, ma il lieto fine a volte porta con sé un rovescio della medaglia… come la Emma Villas che deve trasferirsi a Siena perché non a Chiusi non c’è un palasport all’altezza…  Ma è il bello dello sport. E delle chiacchiere da bar. E’ bello sentire i chiusini per esempio passare dai commenti sull’acquisto di Kedhira da parte della Juve o dal caso Salah al futuro di Spescha, Lotito, Romani e Muscarà,  gli alfieri della cavalcata del volley lasciati a piedi per far posto agli stranieri  Snippe, Bencz e Kaczinsky e a tre ragazzotti di belle speranze della Nazionale Juniores…

Vuol dire che la cultura sportiva del paese cresce.

Certo… oggi, a qualsiasi livello nello sport, di poesia ce n’è ben poca. E di filosofia ce n’è una sola: quella dei soldi. Ma vedere un Ivan Basso che lascia il Tour perché ha scoperto di avere un tumore e va ad operarsi con il sorriso sulla labbra e sembra essere lui  a far coraggio agli altri, sì, restituisce allo sport anche un po’ di poesia, di filosofia, di umanità e di dignità. Non tutto è perduto, insomma…

Marco Lorenzoni

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