CHIUSI, LA VOCE DEL SILENZIO

martedì 19th, agosto 2014 / 16:56
CHIUSI, LA VOCE DEL SILENZIO
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di Rosa Iannuzzi

 

Qualche tempo fa un carissimo amico di Chiusi mi chiese di esprimere una mia opinione su questa cittadina. Io risposi che essendo venuta ad abitarci da poco, era per me difficile poter raccontare una qualsiasi impressione, e lui candidamente mi rispose “beh, proprio per questo, sarebbe interessante capire cosa ne pensa una persona che ha deciso di venire a vivere qui”.

Il “qui” veramente sarebbe da allargare, perché ormai sono 21 anni che vivo da queste parti. E venendo da una città – Torino – ed avendo una storia di migrazione – i genitori dal sud al nord ed io dal nord al centro – sicuramente lo sguardo ancora si sofferma incredula e stupita su alcuni meccanismi incomprensibili. Ma forse sarei un’estranea anche a Torino, e molti miei amici torinesi mi assicurano che probabilmente non riconoscerei nemmeno più la città: è migliorata moltissimo per il turista, forse meno dal punto di vista sociale, ma questa è un’altra storia. Nei 18 anni vissuti a Moiano, ho sempre cercato di interagire con la realtà locale e devo ammettere che la risposta (pur essendo un centro di circa 1200 abitanti) tutto sommato è sempre stata pronta.

L’attività politica poi mi ha permesso di interpretare e leggere la realtà cogliendo la rete – a tratti sfilacciata, molto più spesso ingarbugliata – di relazioni, l’intreccio tra le istituzioni e la comunità. E quando sono tornata ad occuparmi di scrittura, tra un impegno associativo e l’altro, la comunità del paese ha risposto con attenzione, con curiosità. Quindi più che raccontare quello che penso, vorrei raccontare quello che vedo. Da quando vivo qui – scelta condizionata soprattutto da questioni logistiche e familiari – mi sembra di essere come quei personaggi dei cartoni animati che corrono, corrono e non si muovono mai.

Ho messo il naso in diverse realtà associative locali, soprattutto dello Scalo. Ho frequentato i luoghi della cultura e della politica, del mondo associativo e sportivo. Cammino in queste strade deserte – soprattutto di notte – e mi interrogo su questo luogo.

Eppure ci sono periferie molto più brutte della Stazione, ci sono centri storici molto più miseri di Chiusi Città. E allora cosa manca?

E come se il silenzio che si percepisce, fosse un allenamento quotidiano alla paura di contraddire, ed io non riesco ad abituarmi a questo silenzio, io che ho vissuto sulla mia pelle il conflitto quotidiano – di una fabbrica e della sua città, di una generazione e della sua devastazione, di una periferia e del suo controllo, di giorno, di notte. E anche il valore stesso delle persone, la passione di quelli che si impegnano, viene mortificato dal sottodimensionamento dell’idea, del progetto. Vedo una sottrazione quotidiana di dignità quando occorre continuamente lavorare per il consenso. La dignità pretesa di chi vuole lavorare ad un progetto rivendicando la libertà di portare a termine il progetto stesso, e la dignità rapita di chi applaude in un clamore di battito di mani che non si cheta mai.

C’è chi gravita attorno alla parrocchia, chi attorno all’istituzione, chi attorno alle sue appendici. Vedo che ciò che nasce spontaneamente deve essere in qualche modo inglobato, assimilato secondo la vecchia scuola di controllo del Pci (ma questo è un male italiano in realtà più che locale). Vedo comunità che si sfiorano ma non colloquiano (gli italiani da una parte e i cittadini stranieri dall’altra, anzi le varie comunità di cittadini stranieri).

Vedo una città che vive una crisi profonda, che non è soltanto economica, ma non sento nessuno alzare la voce, nessuno reclamare attenzione.

Eppure come ha scritto Paolo Scattoni in un suo intervento del 18 agosto su Chiusiblog e come scrive continuamente Marco Lorenzoni dalle pagine di questo giornale, di situazioni, di motivi per alzare la voce ce ne sarebbero. Questo intervento non ha una conclusione, come quei film che ti lasciano sospesi, perché il lieto fine non arriva mai.

Credo però che soltanto mettendo pezzi di storie insieme, con percorsi diversi e motivazione diverse, possiamo costruire un puzzle che possa davvero delineare uno scenario diverso. E non contro qualcosa o qualcuno, ma insieme ai nostri progetti e alle nostre idee. Quindi ben vengano gli Stati generali della Cultura proposti da questo giornale se questo può essere un’occasione valida per confrontarsi e dare vita e forma a qualcosa di interessante. Una città che prova a raccontarsi è una città in cammino, una città che si interroga, che non si ferma mai…

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